Quella vita sospesa fra un pozzo e un caffè: “Ma il mio amore è Paco” di Beppe Fenoglio, nella splendida interpretazione di Andrea Bosca a Monastero Bormida.

Io le ricordo. Si, le ricordo bene le sale da gioco, quasi identiche a quelle descritte da Beppe Fenoglio. Erano gli anni ’70, non ero neppure maggiorenne. Frequentavo il bar – ristorante Italia di Piazza Roma, ed ero amico dei nipoti della proprietaria, un donnone volitivo e importante. Allora auto ce n’erano poche, autostrade meno ancora, computer zero e telefoni solo fissi e pochi. Gli agenti di viaggio di ogni genere usavano i mezzi pubblici, oppure auto scalcagnate, e passavano la notte, tra una località e l’altra, a mangiare e dormire in quelle che si potevano definire locande: ristoro, camera, prezzi modici…e, per chi volesse, il brivido del gioco. Un lungo tavolo, un tappeto verde, un mazzo di carte, un gioco che in Francia e nei Casinò chiamano Baccarat, ma li più prosaicamente “Il 9”. Un gioco dove c’è un banco e altri che contro questo banco giocano, a volte vincono, spesso perdono. Io ero giovane e senza soldi, non potevo certo giocare…e poi se lo avessi fatto mio padre mi avrebbe scotennato, lo sapevo benissimo… Però anche solo guardare era fantastico: quegli uomini più o meno anziani (così vedevo, allora, anche un quarantenne) con i cappelli in testa, che si toglievano e rimettevano per nascondere il nervosismo, le imprecazioni dette quasi sempre fra i denti e a volte a voce alta, le sigarette accese con inquieta impazienza, con ansia a malapena trattenuta. E poi i fogli di carta moneta che girano, le mani che li lasciano, a volte lanciandoli con rabbia, altre mani che ghermiscono, leste e spietate. E chi fruga nel portafoglio, chi chiede un prestito…chi perde la cascina! Come Paco. Vi racconto un episodio a cui ho assistito di persona, tragico e buffo contemporaneamente: un tipo che davvero aveva perso di brutto…è notte fonda, le finestre oscurate, che il gioco d’azzardo è tollerato ma deve essere invisibile…ma la moglie lo sa dov’è il marito, ha consuetudine nel recuperarlo, arriva vociando…lo vede e capisce che ha perso una mezza fortuna, iniziano un alterco violentissimo…il banco, colui che comanda, che i soldi li ha e li raccoglie, fa un cenno ad uno che controlla che non ci siano problemi…ma nel frattempo lei ha incominciato a schiaffeggiare lui, allora uno dei giocatori, che entrambi conosce, si alza per dividerli: grave errore, che i due, ormai dai nervi saltati…se la prendono con lui! Il brutto tipo li butta fuori tutti e tre, con decisione. Io sono esterrefatto…ma il boss, serafico, dice un ineffabile allora, dove eravamo rimasti?…e il gioco, come se nulla fosse, riprende. Non sarà più stata l’Italia di Fenoglio, ma credo ci assomigliasse molto.

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

Ma il mio amore è paco, che fa parte di quel gruppo di Racconti del parentado – così avrebbe voluto chiamare Fenoglio questa raccolta, ma che l’Einaudi volle titolare Un giorno di fuoco, il primo dei magnifici racconti, dal carattere decisamente western, di quel tardo Fenoglio – ha, nel suo fulcro centrale, una vicenda di soldi perduti, per testardaggine, per essere entrati nel gorgo del gioco, per l’ingordigia, per quella malattia che è l’azzardo, in una notte di Langa che pare non finire mai. Fenoglio era ben cosciente della sua vena western: scrive ad Italo Calvino (editor di Einaudi, in quel periodo) ho appena terminato un grosso racconto intitolato “Ma il mio amore è Paco” e ambientato nei “saloons” langhiani.

Paco è un personaggio davvero indimenticabile, donnaiolo indefesso e instancabile, che lascia nella scia della sua vita molti cuori infranti – infatti il titolo el racconto viene dalla bocca di una sua innamorata, che si sposa un tale Alfredo, ma sull’altare dice, appunto Ma il mio amore è Paco! Così, ad una prima parte resa davvero sapida dalle avventure di Paco, segue la tremenda disfatta portata dal gioco, dove perde tutti, ma proprio tutti, i suoi averi, mobili e immobili, con poi quel colpo di scena finale, che sembra uscito dalla migliore Commedia all’Italiana, bello come il miglior Don Quixote, divertente e divertito come in una commedia teatrale di De Filippo. Perché lui, Paco, arriva, e vuole gettarsi nel pozzo del giardino…, ma poi chiama la moglie, Giulia. Le dice che sono rovinati. Le confessa persino che è per colpa del suo desiderio di un’altra donna: Lei: Ma perché, perché hai giocato? Lui: Per Gemma. Per portarla al mare nel mese d’agosto. Per Gemma della privativa. Maiale!fece allora mia zia, con la voce fredda e tesa come tramontana. – Hai rovinato me per portare quella lurida al mare. E me non mi hai mai portata fino a Torino a veder Po. Buttati pure. Se è cosí, buttati. Ma mentre lui sembra si stia per buttare, ecco il colpo di genio dell’immenso narratore che era Beppe Fenoglio: – Un momento, – disse lei, non piú atterrita, solamente acida e stanca. – Hai già preso il caffè? – No, Giulia, stamattina sono ancora digiuno di caffè. – E allora vieni in casa. Lascia il pozzo e entra in casa a prendere il caffè. Quando mai, o Paco, hai fatto una qualunque cosa senza aver preso il tuo caffè della mattina? L’acqua del pozzo sciabordò sotto la risata di mio zio. Sempre ridendo saltò via dal pozzo e venne verso casa. Semplicemente fantastico!

Per interpretare, in solitaria – com’è accaduto a Monastero Bormida, sold out nella “Prima” di una stagione teatrale che si presenta come assai interessante – sabato scorso, questo pezzone narrativo, bisogna essere davvero bravi, anche perché i personaggi sono tanti, ognuno con la propria notevole personalità. Io che non ho nessuna particolare predisposizione a mitizzare a prescindere le star del nostro cinema o della nostra Tv, come è, meritatamente, Andrea Bosca, ero, lo ammetto, un po’ scettico. Ho visto in passato alcune proposte di teatralizzazione di questo racconto, ma in tutti i casi c’erano almeno un paio di attori. Invece è giusto dire che è stato davvero bravissimo. Una lettura scenica, con passaggio fra tre postazioni vicine, ciascuna con proprio leggio, tra cui una posizione da seduto, dove ad esempio avvenivano i dialoghi economici fra Paco e i furbastri che se lo stavano spennando. Ma una lettura scenica in cui Andrea Bosca mi ha letteralmente ammaliato con una continua trasmutazione caratteriale, vocale e scenica dei vari personaggi interpretati. Un vero folletto di movimento anche da fermo…tanto da parere, a tratti, che in scena ci fossero davvero più attori. Una performance molto applaudita, ma con pieno merito.

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

A cui aggiungo il fatto che ci ha regalato anche la lettura appassionata ed emozionata di un altro breve racconto di Fenoglio, Il Gorgo, dove un bambino ha l’intuizione trascendentale che il padre voglia buttarsi, per disperata miseria, a fiume, proprio dove un gorgo lo avrebbe trascinato alla morte, ma con la sua sola presenza lo salva e se torna a casa con lui. Un piccolo, splendido apologo di amore filiale. E io? Lo ammetto, mentre applaudivo con piena convinzione, pensavo che Fenoglio è semplicemente immenso, e che quella sera Andrea Bosca è stato veramente il suo degno profeta.

 

 

 

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

 

Print Friendly, PDF & Email