Non soltanto in Arte, capire niente è meglio di niente

La realtà è che capire niente è quasi meglio di niente. Se le parole fanno la differenza, il compito dell’artista non è affatto quello di contrastare le considerazioni sulle sue opere, quanto piuttosto quello di mostrare a noi tutti qualcosa che non sapevamo e che addirittura non avevamo alcun bisogno di vedere. Questo è quello che si può definire “un buon lavoro”. Come tale fa anche discutere. (#fattoadarte)

L’opera d’arte insiste sull’incrocio fra intelligenza e prodotto, che le forze tecnologiche disturbano con i costanti tentativi di svilirne non tanto il valore, quanto piuttosto il reddito giustamente dovuto a quanti la realizzano.

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Una delle azioni che creano nocumento è quella di incrementare il dilettantismo, spacciandolo per democratica norma culturale, mal celando così la sua autentica natura di possibilità utopica.

Tutti noi possiamo fare arte, comunque: girando video, cantando canzoni, scrivendo poesie, esponendo i nostri quadri e, perché no? addirittura mettendo in mostra noi stessi.

Azioni che possono non essere pagate in denaro o beni alimentari, ma che potrebbero appagare essendo vendute come un percorso alternativo verso la ricchezza professionale, sociale, culturale.

Poter diventare un artista famoso, in questo si possono sintetizzare gli sforzi ed in misura maggiore illusioni e velleità del dilettante; ma così facendo stratifica una disuguaglianza sociale ed economica che potrebbe minare profondamente la vita civile contemporanea.

Una delle colpe è l’aver reso leggendaria e pressoché inamovibile una pletora di “stelle” consacrate per pigrizia mentale tanto dalla televisione quanto dal web hanno, essendo divenuta consuetudine invitarli a svolgere il ruolo di ospiti anche quando non hanno più nulla da dire o da mostrare (“opinionisti” è il ributtante termine con cui vengono qualificati, non avendo più alcun valore quelli seri).

In questo modo è avvenuta la trasformazione burocratica dell’ascesa al successo: tra rispetto dell’economia e sudditanza volontaria all’immagine si sono moltiplicati i passaggi obbligati che rendono impossibile emergere senza prima render conto di talento, autorevolezza, formalità, direttive, aspettative degne di approvazione o quanto meno di ammirazione. Tristemente, quel che conta è il risultato e non già il percorso di vita e di studio e di applicazione.

A farne le spese sono quei professionisti che occupano la parte centrale, che compiono il loro lavoro in condizioni che non ammettono né guadagni, né improvvisazione rendendoli sempre prossimi al collasso in quanto lottano per veder riconosciuta la loro esistenza. Gli artisti fanno parte di quelle categorie non protette dallo Stato, non rappresentate dalla politica o dal sindacato, non riconosciute per l’alto valore sociale che producono pur essendo la loro opera un rilevante valore comune altrimenti conosciuto come “contenuto” (questione su cui molti blaterano e basta).

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Diventare famosi diventa una merce economica, quindi nasconde quella parte dei costi sociali e finanziari a carico di lavoratori sottopagati o pagati affatto, alimentando in modo truffaldino il concetto romantico dell’artista sognato nella sua singolarità oppure travisato nella sciocca convinzione che vi sia stata comunque una equa distribuzione del talento, tale da permettere a chiunque di fare arte.

Luoghi comuni che scatenano conseguenze politiche capaci di alimentare soltanto l’incomprensione su lavoro svolto dalla artista, il quale sta appunto svolgendo un lavoro, il proprio lavoro per quanto specifico e qualificato, come molti altri lavori, intellettuali o manuali che siano.

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