Offerta ai ricordi

La strada è sempre la stessa, ma non per questo meno attraente. L’alternarsi delle stagioni sublima il paesaggio come fosse la prima volta che lo percorro. L’auto conosce la strada ed è incredibile come dopo pochi chilometri dalla città tutto cambi in funzione di ciò che esige il paesaggio. Una mandria al pascolo mi catapulta in una dimensione inconsueta, riportandomi ai ritmi lenti e alla pace che la natura infonde. Ecco Vignale Monferrato che si erge a sentinella sull’immediata collina, scortandomi verso la mia meta prediletta. La discesa mi costringe a rallentare, mantenendo la stessa velocità del ciclista che ho davanti. Ne segue un rettilineo di circa un chilometro e poi la scelta che, come al solito è indicata a sinistra. Salgo dolcemente affiancando case signorili orlate da giardini curatissimi. Ai primi di marzo le gemme fanno capolino nell’aria fresca mattutina; di questo passo il pomeriggio sarà tiepido e mi concederà una passeggiata sotto il sole. Ho l’impressione che la vista si sdoppi invece sono le colline che si sovrappongono l’una all’altra a crearne l’effetto. Il posteggio è davanti alla tenuta dei Cedri, un tempo non si trovava mai posto, sempre assiepato di macchine lussuose che vi giungevano per il pranzo della domenica. Dall’oggi al domani ha chiuso i battenti. A nulla è valsa la notorietà  del Monferrato a far da richiamo, quale luogo eletto a patrimonio dell’umanità. Con tali disilluse riflessioni mi incammino verso il centro del paese lungo la sottile stradina, stretta tra un nugolo di case addossate l’una all’altra in pietra color miele. La pietra da cantoni la fa da padrone e il centro è per lo più un cantiere. Forse la gente del borgo ha approfittato di questa chiusura momentanea per rispolverarne l’identità. Il bar è chiuso anch’esso, e non mi posso fermare nemmeno per un caffè. Pazienza. Tiro dritto sostando nella piazzetta raccolta tra gli edifici affacciati a mezzogiorno. Le imposte sono chiuse, appisolate come corpi stesi al sole. Lancio uno sguardo alla bacheca, un tempo zeppa di propaganda turistica, di fiere e mercati, ma a parte i necrologi non c’è altro. Costeggio il lato sud della chiesa sconsacrata. Il sole è forte e fa quasi caldo al riparo dei muri delle case. La vista sulla colline è sconfinata e resto qualche minuto a osservare il panorama nel cui incanto mi perdo. La casa alle mie spalle rispetto al punto d’osservazione è in restauro. E’ stata scrostata dell’anonimo intonaco che la ricopriva, portando a nudo la pietra calcarea, ma per il resto c’è ancora molto da fare. L’aspetto è ruvido dalle sfumature pastello che vanno dal grigio all’ocra, simile a una scogliera a picco sul mare. La casa è in vendita e sull’insegna c’è un numero di cellulare per le informazioni. Mi soffermo sull’insieme che non è niente male. Per curiosità mi è venuta quasi voglia di chiamare l’agenzia immobiliare. Sarebbe fantastico trascorrere parte del mio tempo in questa casa, a poca distanza dalla città, ma completamente estranea ai rumori e al grigiore cittadino. La vorrei con le persiane verde salvia e tanti fiori ricadenti e vaporosi. Una sdraio e un tavolino per mettermi comoda a contemplare il sipario delle colline che si perdono in lontananza. Un posto perfetto, silenzioso e tranquillo, isolato ma non troppo, con un po’ di paese a farmi compagnia nei momenti di insopportabile solitudine. Porterei dalla città la mia macchina per scrivere senza muoverla più e un taccuino per annotare qualche impressione passeggera che andrà a comporre un racconto, casomai mi venisse voglia di scrivere. E poi provarci o pensare di farlo. Il senso del piacere e della meraviglia saranno in grado di far uscire qualcosa di buono dalla pagina bianca. Dal balcone l’immaginazione sarà libera di dispiegarsi in un amalgama di impressioni, emozioni e visioni retrospettive. Sarà come sentirsi a casa, nonostante non abbia mai abitato un paese lascio aperta la possibilità che il mio desiderio si avveri. L’amore a prima vista esiste anche per i luoghi e fin dal primo istante quel balcone da cui dirompono già sensazioni e ricordi è diventato il mio, come lo è un sogno prima che il risveglio lo dissipi. Mi vedo già attraversare le stanze e raggiungerlo per abbracciare l’orizzonte e con punta delle dita sfiorare il dorso delle colline imparruccate di boschi di carpini e di castagni. Tra i bassi e tondeggianti rilievi disegnati dai filari emergono qua e là le cascine isolate che spezzano l’onda verdeggiante. Segnali di vita contadina in cui la gente tira avanti così, sfottendo il tempo senza mutazioni, con la biancheria stesa ad asciugare in cortile su un filo inforcato da un bastone, il porticato intonacato sotto cui giacciono appesi al chiodo le falci, gli attrezzi e altro ciarpame, oltre ad alcune brache da lavoro indurite dalla terra e dal fango. C’è una donna con un lungo grembiule raccolto tra le mani, dentro cui tiene il mangime per le galline. Va verso il pollaio passando sotto la pergola di uva fragola, luogo di svago e incontri, che invoglia a fermarsi e a chiacchierare davanti a un bicchiere di vino,  al riparo dal sole. Somiglia tanto alla mia che avevo nell’infanzia. C’era un dondolo verde fatto con dei tubi di ferro verniciati di bianco. Al posto del tettuccio di stoffa correva un altro tubo tondeggiante al quale mi appendevo per le gambe e scimmiottando gli acrobati del circo mi lasciavo penzolare con la testa all’ingiù. Mia nonna si arrabbiava molto quando mi vedeva compiere quelle giravolte, mi rimproverava dicendomi che potevo rompermi l’osso del collo. Poi con il passare del tempo la  mia testardaggine la fece desistere e non mi rimproverò più. Non so se si persuase della mia agilità  o per il fatto che non l’ascoltassi affatto. Seduta composta non ci volevo stare. Il motivo inconfutabile era che il dondolo mi rovinava le gambe. La struttura aveva la disgrazia di avere piccole canne di plastica intrecciate che lasciavano antiestetiche righe sul retro delle cosce che somigliavano a uno sfogo della pelle.

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

Nelle maniere più impensate il passato torna sempre a farmi visita. Ha ragione chi dice che i luoghi possono essere la chiave della nostra esistenza anteriore. E’ così che il passato si alterna al presente, rinverdito dal paesaggio innanzi, che fa  vibrare le corde sensibili della memoria. Un’affinità misteriosa trova posto tra la mia anima e la quiete del paesaggio. I nostalgici ricordi avvolti nel mio cuore si srotolano in immagini senza età. Avverto il soffio degli anni spensierati quando dal balcone di casa in cui vivevo da bambina, che tanto questo ricorda, guardavo i cirri ormeggiati sopra la mia testa gonfiarsi, mentre inseguivo i segmenti della scia di un aereo tra una nuvola e l’altra sognando un giorno di volare. Invece a volare sono le rondini che, in circonvoluzioni, svolazzano intorno al balcone. Si sono posate sui fili elettrici pronte a spiccare un altro volo tra le colline. Ancora non sapevo che quelle ali appuntite capaci di graffiare il cielo teso e celeste trovassero assonanza in un ricordo lontano che subito emerge. Mi ritrovo a pensare al tinello di famiglia colorato di azzurro dove consumavamo i nostri pasti conviviali. Attaccate alle pareti della stanza c’erano alcune rondini di porcellana disposte in volo. Una  aveva un’ala rotta, ma non ricordo come fosse accaduto. So invece che gliela riattaccai per alleviarle il dolore, poiché pensavo palpitasse di vita e che soffrisse a non potersi più ricongiungersi allo stormo. La casa con il tempo subì delle modifiche, il tinello divenne la sala d’attesa dell’attività dei miei genitori e le rondini di porcellana portate non so dove, ma  se assecondo le mie speranze, mi piace pensare che il destino abbia offerto loro una stanza in cui continuare a volare. Il vento si è alzato un vento freddo che piega gli alberi, sferza il mio viso, arruffa i capelli, li aggroviglia, mentre cerco un riparo contro le mura del balcone. Poi verso sera il vento si placa e concede al mio sguardo di immergersi in uno splendido tramonto rosato come un cielo d’oriente. Il cromatismo del tramonto sembra trasmettersi ai frutti del melograno che da qui vedo distintamente ricadere pesanti come sfere natalizie. Ne sono pieni i campi, si vede che attecchiscono bene in questa terra. Ad Istanbul il succo di melograno lo vendevano nei chioschi per strada, lungo i viali che danno sul Bosforo, al posto delle bibite americane, ma servite allo stesso modo: in bicchieri di plastica e cannuccia. La visita al Palazzo Dolmabahce era stato un viaggio al tempo dei Sultani tra  sale ricoperte d’oro, scalinate in vetro Baccarat e tappeti di manifattura kilim, oggetto di desiderio della stirpe ottomana, che avrebbero occupato per grandezza una piazza come questa di Olivola. Uscita dal palazzo con ancora le immagini sfavillanti di ricchezza ritornai con i piedi per terra nell’atmosfera satura di profumi, di venditori ambulanti e di lustrascarpe.  Non avevo sete, ma il turco che sapeva il fatto suo, me la fece venire. Tagliò in due il frutto da cui zampillarono gocce sanguigne che gli macchiarono di rosso le mani di un colore indelebile simile all’hennè.  A distanza di tempo quel gusto ferroso e asprigno occupa ancora i miei sensi,  mi sale  in bocca l’acquolina al solo guardare gli alberi da lontano.

Due parole in dialetto scuotono i miei pensieri e ritorno in me. Dalla balza di case di sotto si accendono le luci nelle stanze, ora che il giorno si è concluso.  E’ il tempo delle parole, del raccoglimento intorno ai commensali. Mi chiedo dov’ero, dove sono stata in quest’arco di tempo?  Non mi sono mai mossa da qui, da questo balcone che mi ha sedotto e da cui si affaccia  l’eco dei ricordi e della nostalgia. La bellezza dello spazio circostante si completa con il mio mondo interiore. Si converte in una visione tutta mia e che per altri sarebbe inverificabile. La bellezza che tanto celebrava Emily Dickinson fuori dalla finestra di casa sua “non ha causa, esiste. Inseguila e sparisce. Non inseguirla e appare.”

Print Friendly, PDF & Email