Anche il Piemonte si mobilita per Ahmadreza Djalali, condannato a morte in Iran

Ci sono parecchi segnali che sembrano purtroppo indicare che la vicenda del Professor Djalali, iraniano ma piemontese di adozione, potrebbe precipitare. Il 24 novembre Vida Mehrannia moglie di Ahmadreza Djalali il ricercatore iraniano condannato a morte con l’accusa di spionaggio ha dichiarato di aver ricevuto una telefonata da suo marito dal carcere di Evin, a nord di Teheran. Nella telefonata le annunciava che l’avrebbero trasferito in isolamento nella prigione di Raja’i Shahr a Karaj e che presto sarà eseguita la sentenza capitale a cui è stato condannato.

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Ahmad le ha detto che quella sarebbe stata probabilmente la sua ultima telefonata.

Ahmadreza Djalali, é un medico di 47 anni, si è formato presso un’università militare iraniana in medicina delle catastrofi, una disciplina che studia anche come reagiscono gli ospedali a disastri naturali e umani come attacchi terroristici di tipo Cbrn (armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari).

Era proprio questo il tema di ricerca di Djalali fra il 2012 e il 2015, quando lavorava come ricercatore al Center for Research and Education in Emergency and Disaster Medicine, dell’Università del Piemonte Orientale.

Ahmadreza ha la doppia cittadinanza iraniana e svedese. Proprio per il suo lavoro di ricerca era solito recarsi in Iran come relatore in convegni e congressi sui temi della sicurezza.

In una lettera inviata ai suoi colleghi era stato lo stesso ricercatore, a spiegare le motivazioni del suo arresto: “Durante un viaggio in Iran nel 2014 – scrisse – due persone dell’esercito e dei servizi segreti mi chiesero di identificare e raccogliere dati e informazioni, di fare spionaggio nei paesi europei riguardo alle loro infrastrutture critiche, capacità anti-terroristiche, piani operativi sensibili. La mia risposta fu no”. Questo rifiuto aveva destato sospetto nelle autorità iraniane che lo hanno cosí condannato nel Dicembre del 2017 con l’accusa di essere una spia.

Una tesi che le autorità, secondo quanto riporta Vida, hanno cercato di far confessare anche al ricercatore, forzandolo a firmare una dichiarazione in cui rendesse noto il suo coinvolgimento con Israele e confermasse di essere una spia per conto di un “governo ostile”.

La vicenda di Ahmadreza Djalali l’ho seguita personalmente dall’inizio, spesso come Articolo21 abbiamo chiesto il suo rilascio e piú mi sono confrontata con sua moglie che in questi giorni teme il peggio per le sorti di suo marito.

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Ahmad é stato costretto ad affermare, di aver incontrato almeno 50 volte membri dell’intelligence stranieri e di essere stato pagato 2.000 euro a incontro, ma “questo è falso – mi ha detto  Vida in un’intervista rilasciata qualche mese fa – perché basta vedere il nostro tenore di vita per capire che non abbiamo mai preso soldi da nessuno”.

Sarebbero inoltre emerse, secondo la magistratura iraniana, anche alcune relazioni tra il ricercatore e Masoud Ali Mohammadi e Majid Shariari, i due scienziati nucleari iraniani assassinati nel 2010.

Al contrario secondo la versione di Vida, furono proprio due rappresentanti delle autorità iraniane a contattare Ahmad chiedendogli di spiare per il suo Paese.

Il ricercatore venne costretto a rilasciare una falsa confessione alla tv di Stato iraniana, ammettendo di aver spiato il programma nucleare irianiano e confermando di aver lavorato per il Mossad Israeliano in cambio dei soldi e della residenza in Svezia:

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“Questo è falso!” mi ha detto Vida – mio marito é innocente. Non ha mai spiato per nessuno, non ha mai avuto contatti con il Mossad e non sapeva niente dei programmi nucleari iraniani. Quella confessione in tv, – sostiene ancora Vida – è frutto di pressioni, torture, maltrattamenti e minacce di morte rivolte anche alla sua famiglia in Iran e ai suoi due figli che vivono in Svezia”.

Ci chiediamo ora, quanto i recenti avvenimenti nella Repubblica Islamica dell’Iran possano influire sulle sorti di Ahmadreza. Con l’uccisione di Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, lo scienziato a capo del programma nucleare iraniano, ucciso a colpi di pistola ad Absard, nei pressi di Damavand, a nord-est della capitale Teheran lo scorso 27 novembre la situazione sul caso Djalali potrebbe complicarsi.

L’Iran ha accusato immediatamente il Mossad di questo assassinio. Lo scienziato ucciso era stato accusato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu di gestire un programma per lo sviluppo di armi atomiche fin dall’inizio degli anni 2000, denominato programma Amad.

Il generale iraniano Hossein Dehghan, consigliere militare della Guida Suprema Ali Khamenei subito dopo l’uccisione ha dichiarato “I sionisti stanno facendo di tutto per innescare una guerra a tutto campo facendo pressioni sull’Iran. Ci abbatteremo sugli assassini di questo martire innocente come un tuono e li faremo pentire di quello che hanno fatto”.

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E il primo atto di vendetta potrebbe proprio essere la vita di Ahmadreza Djalali.

Un messaggio chiaro e raccapricciante da recapitare al Mossad ed a chi lo sostiene.

Nel frattempo, in queste dinamiche politiche e conflitti di potere, in cui le vite umane vengono utilizzate come regolamento di conti, notiamo l’assordante silenzio della Comunità Internazionale. La totale assenza di figure politiche che avrebbero potuto spendersi per salvare la vita a questo brillante ricercatore che ancora avrebbe potuto fortemente contribuire alla ricerca scientifica internazionale.

Invitiamo tutti a firmare l’appello di Amnesty International che richiede il suo immediato rilascio https://www.amnesty.it/appelli/iran-ricercatore-universitario-rischia-la-pena-morte/

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