Palazzo Rosso: Alla ricerca del Carlino nascosto

Palazzo Rosso è tornato al suo splendore originario con il completamento della ristrutturazione esterna che ci ha restituito la sua eccezionale e unica facciata.

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Qual è la storia del Palazzo, simbolo della nostra città?

Offriamo ai nostri lettori questo piacevole articolo di Piercarlo Fabbio (allora Sindaco della città) pubblicato nel volume “Il Palazzo comunale di Alessandria” di Lucio Bassi e Alberto Ballerino per le edizioni del Piccolo, nell’anno 2008.

 

Tutto sta nel trovarla… una moneta d’oro del 1755, su una faccia della quale è impressa l’effigie di Carlo Emanuele, del valore reale di 120 lire di Piemonte.
Su di essa si fondano i segreti, le leggende, le magie di un palazzo. Il più importante, per elezione, di Alessandria.
Sì, quello municipale, che, dopo secoli, sostituiva il palatium vetus e subito veniva camuffato da opera per l’intrattenimento degli alessandrini, da teatro, perché questo era l’impegno principale: costruire un “civico” che sostituisse l’offerta privata dei Guasco messa più volte in discussione dall’aristocrazia .
Ebbene, proprio il 1° settembre 1772, si era posata la prima pietra e si era messo a dimora il “Carlino” d’oro. Su di un tondo d’oro battuto si era voluto erigere l’imponente opera. Chissà che i responsabili della città non volessero simbolicamente affermare quanto importante dovessero essere o apparire le decisioni per la comunità che da lì a poco si sarebbero adottate tra quelle stanze. Chissà perché un amministratore deve fondare la fortuna della città più sulle finanze che sulle idee. Chissà perché, ancora una volta, Aristotele sconfigge Platone o se ne serve quasi per irriderlo. Chissà se un giorno la si potesse trovare. Come una novella pietra filosofale potrebbe racchiudere in sé le vicende che in quel palazzo dal 1775 accadono…
Palazzo rosso, senza alcun dubbio? Oppure qualche venatura di altra tonalità – certamente diversa dal rosso pompeiano di Ferdinando Bonsignore – originalmente lo ha contraddistinto? Magari un impasto tra le terre di Tanaro e di Bormida. Magari un miscuglio preparato al mortaio in sapienti botteghe, imprecisato. Tra il marrone della palea del Tuono e – appunto – il rosso delle terre di Fraschetta, solcate e fertilizzate, dalle acque torrentizie della Bormida. Chissà?
Perché rispetto alle incrollabili certezze degli storici, le incantate leggende della memoria sono più nebulose, nebbiose, offuscate. Lasciano intravedere, tra la bruma, qualche forma, ma la smarginano per renderla magica e così anche Palazzo Rosso si traforma. Permettono di riraccontare mille volte diversa la realtà. O forse la sua negazione. Da Gagliaudo a Pedoca, da Maino ai miracoli della preveggenza di San Baudolino, da Tomaso di Savoia al galletto rubato ai casalesi. Di uno storico serioso e preparato potrete dire quanto sia interessante, potrete giungere fino al punto di paragonarlo ad uno scopritore di fatti, eventi, notizie. Già. Ma da un racconto avanti al fuoco del camino, da un finnegans wake continuo e travolgente, non potrete far altro che farvi affascinare.
Così come gli affreschi ottocenteschi di Sassi nell’ufficio del Sindaco non narrano Alessandria, ma te la fanno scoprire per sottrazione. Quelle sono le Alpi, quella è Roma, quell’altra è Napoli, e l’altro dipinto cosa raffigura? Mah? Forse un paesaggio tra pianura, fiumi e collina… Qualche segno ben collocato per riconoscere Alessandria, senza neppure esserne certi.
E che ne dite di chi li ha terminati in Sala Giunta? Niente di male a chiamarsi Barilli. Di cognome. Ma quando ci si chiama, di nome, Cecrope, allora le cose cambiano. Lì veramente si celano le radici della nostra cultura. Dietro al nome del primo leggendario re di Atene stanno scomodamente seppelliti principi e criteri che oggi ci pare di inventare ad ogni piè sospinto ed invece sono vecchi quanto le nostre intelligenze. Essere figli della madre terra, abolire i sacrifici umani, scegliere la monogomia, inventare la scrittura, seppellire i morti sono le decisioni che gli vengono affardellate dalla mitologia.
Volete un’ultima prova? Per anni gli alessandrini hanno usato uno stemma da loro disegnato, anche nel dopoguerra. Le commissioni araldiche nazionali e il decreto del capo del Governo nel 1941 lo cambiarono. Ne avevano ragione. Ma ci sono voluti altri sessant’anni affinché qualcuno – il sottoscritto, che li amasse sinceramente prima ancora di conoscerli – li convincesse che stavano usando uno stemma non consono ai documenti della Nazione.
Lo avevano già fatto, ottocento anni prima, continuando a chiamare Alessandria, una città che l’imperatore aveva appellato Cesarea.
Inguaribili, sentimentali testardi. Diffidenti. Impareggiabili conservatori, gelosi delle proprie decisioni.
Sì, proprio quelle che ancora oggi si prende in un palazzo che si fonda su un Carlino d’oro… Forse sarà il caso di non cercarlo nemmeno. Basta sapere che c’è e che ci ha portato fortuna aiutando a far grande Alessandria.

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