“Credo che in quell’anno non dormissi mai”: al Pavese Festival 2023 Neri Marcorè legge l’alta parola di Cesare Pavese, e ne canta da par suo la memoria.

Santo Stefano Belbo è il nome, per me, di un luogo dal sapore mitologico. Per me, che ho letto per la prima volta l’ultimo grande romanzo di Cesare Pavese, che è stato uno degli scrittori/simbolo di questa nostra terra di Piemonte – nato in questa stessa Valle del Belbo di cui fa parte Oviglio, dove vivo e son nato io – La Luna e i falò, che avrò avuto, forse, 14 anni (quante volte lo ho riletto, quel romanzo? Manco me lo ricordo più). Per me, che mi sono mille e mille volte emozionato e commosso leggendo e rileggendo le sue poesie, che cito a memoria – magari non proprio alla lettera, a volte la memoria inganna – tanti suoi brani, sia da poesie che in prosa, incipit e lettere e diari. Per me che, appena presa la patente, ormai secoli fa, sono venuto per la prima volta a Santo Stefano in un emozionato viaggio sulle sue orme, alla ricerca della sua identità più contadina, girando con calma questi suoi luoghi, dalla sua casa natale, così bella nella sua semplicità rurale, alla casa del Nuto, straordinario personaggio de La luna e i falò, al secolo il suo grande amico Pinolo Scaglione…e così via, in una serie ormai lunghissima di passaggi a Santo Stefano Belbo, di frequentazioni delle sue opere, di letture e riletture sempre più attente ed approfondite. E, sì, è vero, che quando vado a Santo Stefano, ogni singola volta, che sia lì per lavoro, o come ieri, per bellezza, vivo quel mio essere lì come un pellegrinaggio laico che mi riempie di gioia e di commozione.

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E poi c’è, a Santo Stefano Belbo, il Festival che viene a lui dedicato da quasi trent’anni, che si tiene a ridosso dell’anniversario della sua nascita, il 9 Settembre del 1908 lo festeggiano con un Festival di alto, altissimo livello…ci sono stato lo scorso anno, assistendo al bellissimo spettacolo che Neri Marcorè, partendo dal libricino, piccolo ma splendido, di Giovanna Romanelli, Cesare Pavese e le donne, ha proposto con lo stesso tema. Per chi fosse interessato, questo il link: https://www.alessandria24.com/2023/09/11/la-casa-da-cui-partono-le-strade-di-polvere-unintensa-serata-di-commozione-e-commemorazione-per-rosetta-loy-la-grande-scrittrice-che-ha-narrato-il-monferrato/.

E ci sono tornato, venerdì scorso, esattamente come un anno fa, alla serata dedicata da Neri Marcorè a Pavese. E se lo scorso anno lo spettacolo era dedicato al difficile rapporto di Pavese con le donne, quest’anno, con il solare titolo “Era sempre festa“, era dedicato ad alcuni dei suoi più indimenticabili personaggi, di romanzi e racconti lunghi, tra letture e, come al solito splendide canzoni della migliore musica italiana. Apro però una piccola parentesi per parlarvi della serata precedente, alla quale io non ho partecipato, da che credo sia giusto citare. Mentre ero in coda per l’ingresso – e un plauso all’organizzazione, visto che all’ingresso c’erano tantissimi giovani che controllavano le prenotazioni facendo scorrere la fila con una notevole celerità – ascoltavo le conversazioni entusiastiche di alcune signore subito dietro di me…perché giovedì sera a Santo Stefano c’è stato Claudio Baglioni, in un’altra serata, come quella di Marcoré, completamente gratuita, al quale hanno assegnato il Premio Pavese Musica, alla sua prima edizione. Baglioni si è proposto in una conversazione/concerto, che, a giudicare da quanto sentivo, è stata una festa imponente e piena di gioia, popolata soprattutto da signore entusiaste, ma non solo…anche questo è il Pavese Festival…

Ma venerdì sera, dopo i doverosi saluti istituzionali del Sindaco di Santo Stefano,  Laura Maria Cristina Capra, e del direttore della Fondazione Cesare Pavese, Pierluigi Vaccaneo, Neri, con il suo ottimo aiuto musicale Domenico Mariorenzi, ci ha donato un’altra serata indimenticabile. E, credetemi, quando Neri Marcorè, davanti ad una platea foltissima – e in un silenzio praticamente totale – ha iniziato, con quel suo modo contemporaneamente colloquiale e profondo di leggere, l’incipit proprio di quel romanzo, La luna e i falò, che fa così: “C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi.”…un profondo brivido mi ha attraversato l’anima intera, soprattutto quando questo incipit termina dicendo: “uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di piú che un comune giro di stagione.”…non è forse quello che cerchiamo tutti? Affondare in un luogo le nostre radici per essere qualcosa di più che un comune giro di stagione…Ecco, questo era Casare Pavese…

Ma naturalmente, mica è finita qui. Curiosamente il percorso proposto da Neri Marcorè è stato un percorso a ritroso, che dall’ultimo romanzo è arrivato, attraverso i romanzi brevi de La bella estate: La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, per finire con il suo primo, straordinario romanzo, Paesi Tuoi. Di ciascuno di questi Neri ha letto alcune pagine, significative, appunto, della comprensione, forse meglio sarebbe dire, dell’evocazione di uno o più personaggi. Come dimenticare la palpitante e un po’ impaurita attesa di Berto, sull’aia notturna della bella Gisella, in Paesi tuoi? E che dire del bellissimo incipit de Il Diavolo sulle colline, che mi è capitato moltissime volte di citare, perché ho sentito essere parte di me e della mia stessa giovinezza: Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai. In quella storia che è un manifesto della giovinezza, dove però si inizia quel conflitto dialettico con l’universo femminile, che a Pavese portò tante e tante difficoltà esistenziali – e lui alle donne con cui ha interagito –  che è anche maturazione che si fa difficile accettare, tanto che Pavese, magistralmente, costruisce scene di vera e propria regressione verso l’età infantile, come quando descrive il bagno e poi il sole nudi, in una pozza tra le melighe, un  pantano dove i ragazzi si sdraiano nudi nel calore del pomeriggio, ad arrostirsi al sole: verrai nel pantano anche tu. Qui non si hanno riguardi. Al sole non si deve nascondere niente. Perdonatemi se mi sono soffermato un momento su questo romanzo breve, ma a rileggerlo oggi, benché siano certamente mutati moltissimi contesti sociali, civili ed esistenziali, si rimane comunque colpiti e affascinati da come Pavese sa descrivere con vivida passione e partecipazione il breve volo della giovinezza.

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E tutto ciò alternato a bellissime canzoni di musica italiana. Non credo sia il caso di farvi l’elenco completo, sarebbe solo una lista vuota, in fondo…ma lasciate che ve ne citi almeno tre, che particolarmente mi sono vicine. La prima è di Niccolò Fabi, si intitola Di aratro e di arena…autobiografia di un toro, forse, ma forse  molto di più, come quando dice: Mentre chino la mia testa alla spada / Io lo so che faccio parte di un rito / Che da secoli aiuta gli ometti / A nutrire gli ormoni / A sentirsi padroni. E poi Biancaluna e Polvere Di Gesso di Gianmaria Testa, uno straordinario cantante/poeta che molto, moltissimo mi manca…la prima di queste un brano dall’infinita tenerezza, una Biancaluna che… si arrotola nel cielo / È un gomitolo di lana / È un gomitolo di luna ballerina…, mentre l’altra è uno dei più agghiaccianti manifesti della solitudine che mi sia mai stato dato di ascoltare, con questo inizio lento, solenne e disperato, che Neri Marcorè ha saputo interpretare benissimo: Io ogni mattina ascolto l’alba / e la sera il tramonto / e tutto il rumore che fa / e poi per ogni giorno che passa / faccio un segno su un muro / di questa città / perché non é il tempo che mi manca / e nemmeno l’età. E come non pensare a Cesare Pavese e a quel suo averci lasciati così giovane, così solo e disperato …aveva 42 anni…forse perché Verrà la morte e avrà i tuoi occhi / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso /o un vizio assurdo.

Momenti di grande emozione, come potete certo immaginare, fra l’alta e ancor potente parola di Cesare Pavese e questa bella musica che possiamo cantare, tutti, in cuor nostro, con Neri Marcorè. Ma non possiamo non chiudere, però, parlando del piacere canoro e della simpatia di Neri. A cominciare da come apostrofa scherzosamente il pubblico, visto che lo scorso anno ha ricevuto la cittadinanza onoraria, con uno squillante Cari concittadini! O l’ironia divertita con cui introduce la canzone di Gaber dedicata al giorno delle elezioni: Già – spiega – si dice “recarsi alle urne” …unico uso che io conosca di questo verbo! Avete mai sentito uno che dive: mi reco dal lattaio, o mi reco…dove volete? No, solo in giorno delle elezioni, un si “reca alle urne”! –  E come accaduto lo scorso anno,  alla fine dello spettacolo ufficiale, mica se ne vanno, i due ma va: anche quest’anno ci hanno regalato un’altra quarantina di minuti di musica splendida, da una travolgente Mrs Robinson di Simon & Garfunkel ad una delicatissima L’orologio di Ivano Fossati…il bis più lungo della storia della musica dal vivo…terminato con la bellissima Sand Creek di Fabrizio de André, ma anche la ripresa, dallo scorso anno, richiesta a gran voce da un pubblico davvero entusiasta, della scenetta nella quale un improbabile Branduardi canta, ovviamente a modo suo, la sanremese “Soldi“ di Mahmood.

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E poi, tutto finito, tornando, in lento cammino e poi in auto, verso quella Valle del Belbo che mi porterà sino ad Oviglio, riflettevo su come sia incredibile che si sappia ancora festeggiare, così bene e con tanto entusiasmo, uno scrittore morto suicida nel 1950…probabilmente perché, anche se le sue parole vengono un altro mondo e un altro secolo, la grande bellezza della scrittura di Cesare Pavese sarà sempre con noi… Come un vecchio rimorso o un vizio assurdo.

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