notizie dall’Oltre Bormida

Un amico mio corrispondente da qualche tempo mi ha passato la palla, come si suole dire, ed io
ne ho subito approfittato, perché nella foto che mi ha mandato ho veduto due cose che mi hanno
subito fatto venire in mente il mio lontano passato. Anch’io, come quel bambino piccolo vestito con
il pagliaccetto, mi davo da fare per aiutare, quando nel periodo della raccolta della meliga
bisognava spannocchiare e prepararsi all’arrivo della sgranatrice del signor Mantelli Francesco
(Cesco ‘d Flavio detto “u terur”).
Poi nella stessa fotografia, scattata su un’aia di una semplice cascina simile a tante come le
nostre, c’è un altro personaggio interessante: un giovanotto con tanto di pantaloni alla zuava. Era
questo un particolare tipo di pantaloni alla moda del tempo, prima che diventasse la divisa della
milizia, che i giovani hanno portato per molti decenni e pure quelli della mia generazione hanno
vestito come pantaloni della festa o per andare alla scuola. Era una moda derivata da una
particolare divisa della fanteria leggera dell’esercito francese, che aveva incorporato milizie
berbere della sua colonia algerina, provenienti da zone e da tribù locali che in arabo venivano
chiamati zwawa. Portavano divise originali, di stoffa pregiata e colorata e ci tenevano a distinguersi
dal resto dell’esercito.
I francesi utilizzarono questi corpi speciali di berberi (popolazioni autoctone delle montagne
dell’Atlante, spesso in conflitto interno all’Algeria con gli arabi, che a suo tempo li avevano
sottomessi al tempo della conquista ottomana) e specialmente durante la Campagna di Crimea
contro i russi, al fianco di noi italiani impegnati nella battaglia di Balaclava e di Sebastopoli.
Durante quella breve guerra gli zuavi combatterono a fianco dell’appena costituito corpo dei
bersaglieri del Regno di Sardegna, ai quali, in segno di rispetto e di ammirazione, regalarono il loro
copricapo, il fez colorato che ancora oggi è il berretto d’ordinanza di questa specialità di fanteria
italiana.
Gli zuavi francesi si distinsero poi anche in occasione di battaglie della nostra Seconda guerra per
l’indipendenza del 1859. (Magenta, Palestro, Boffalora, Solferino, eccetera) nell’armata di
Napoleone Terzo. Il ricordo di quegli alleati del tutto speciali venne portato in Italia dai soldati
piemontesi, ai quali evidentemente erano piaciuti i pantaloni alla zuava, per cui da quel momento
in poi e per un lungo periodo, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, era frequente vedere
dei giovanotti vestiti in quel modo originale. Mia mamma Maria, che era una brava sarta a
domicilio, me li fece più volte di stoffa di lana tipo inglese, recuperata dai pantaloni che erano stati
prima la “vestimenta” della festa di mio padre Giuseppe, il quale, anche se era povero, si era
sempre rifornito da negozi di moda tipo i famosi Pojaghi di Alessandria o da fornitori ambulanti di
riguardo, come il suo amico Carlo Riva, detto in paese “ei cotu” forse in omaggio al termine
francese couturier che ha a che fare con la moda, il quale sovente disponeva di tagli di stoffa
pregiata di lana biellese. Era stoffa di lana leggera ma molto calda, con motivi e colori alla moda di
quell’epoca, cucita poi a mano su misura da sarti del paese come Aldo Talpone o dal famoso sarto
alessandrino Scagliotti, pure lui amico di papà. Dalla fine degli anni Cinquanta in poi l’usanza del taglio su misura degli abiti maschili venne sempre di più abbandonata a vantaggio dei
supermercati dell’abbigliamento, per una ragione di costi ma anche per la scomparsa progressiva
degli artigiani del cucito che avevano imparato nelle botteghe sparse in quasi tutti i paesi intorno a
noi. Con loro se ne andarono anche le botteghe degli articoli relativi, chiamate chincaglierie. A
Castelceriolo ce n’erano ben due famose: quella di Pierina “la Barbana” in via Sale e quella di
Natalina Seghesio in via Desaix. Poi c’erano anche in paese alcune donne ambulanti che giravano
a vendere fili, bottoni ed altri articoli da chincaglieria con dei fagotti al seguito trasportati sui
portapacchi delle bici. Al nome di battesimo univano anche la qualifica del loro mestiere: si diceva
“qula dei fagott” per distinguerla da una eventuale omonima.
Parlando adesso della meliga che si vede nella foto, voglio prima di tutto precisare che le quantità
dei raccolti di quella non tanto lontana epoca erano ben decisamente inferiori rispetto agli attuali
raccolti, anzi posso dire ridicoli al confronto. Oggi, un’azienda agricola che non produce qualche
migliaio di quintali di mais (niente a che fare comunque con la meliga di allora) è destinata al
fallimento, dal momento che impegna una serie di costose attrezzature e lunghe operazioni di
irrigazione un tempo del tutto sconosciute.
All’epoca di mio nonno il raccolto della meliga complessivo non era molto diverso dal mucchio di
pannocchie che si vede nella foto. Alla fine della campagna, la produzione, destinata quasi
unicamente al cibo destinato agli animali da cortile ed alla macinazione per la polenta ad uso
famigliare, non superava quasi mai la media di venti o trenta quintali per famiglia.
La meliga o granoturco veniva seminata nei campi con delle macchine molto primitive che non
conoscevano la tecnica del monoseme e dopo la germogliazione doveva essere diradata con la
zappa, lasciando fra una pianta e l’altra non meno di venticinque centimetri. Adesso le piantine
sono ad appena otto/dieci centimetri una dall’altra e l’interfila sempre più ridotta per aumentare la
produzione per ettaro, con il rischio che si annidino nelle piante muffe molto pericolose per la
salute bovina ed umana, tipo le aflatossine, responsabili, tra l’altro, dello scadere della qualità del
nostro latte. Purtroppo questa è la situazione della nostra agricoltura di pianura, costretta a
correre dietro ai sistemi moderni americani, responsabili del crollo dei prezzi sui mercati e del
sempre più pesante indebitamento dei coltivatori medesimi. Paradossalmente quelli come mio
nonno, con solo l’aiuto di una coppia di buoi, guadagnavano a fine stagione tanto quanto bastava
per sopravvivere appena sopra la soglia di povertà, ma con dignità e soddisfazione. Alla domenica
di solito non lavoravano ma riposavano ed al pomeriggio del giorno di festa trovavano il tempo di
farsi visita in cascina l’uno con l’altro per gustare insieme due fette di salame accompagnate da
una sana bevuta. Adesso sembrano condannati ai lavori forzati, pur se girano tutti col telefonino
appiccicato all’orecchio.
Per il granoturco, dopo adeguata crescita, veniva poi il momento della cimatura della pianta,
quando veniva eliminata la cima (in dialetto la sȗmma) che veniva portata via dal campo per
essere data in pasto ancora verde alle bestie bovine. Era un lavoro micidiale, riservato alle donne,
che operavano tutte coperte dalla testa ai piedi e con i manicotti a protezione delle braccia per
evitare le ferite prodotte dal bordo delle foglie, molto taglienti sulla pelle tenera. Io da ragazzo ho
provato a fare questo mestiere da donna, ma ho presto capito che era meglio lasciare ad altri il
compito.
Al momento infine della raccolta, si entrava nel campo con il carro attrezzato con i Barconi, cioè
con alte sovra sponde all’interno delle quali si gettavano le pannocchie che a mano a mano
venivano staccate dalle piante. Arrivate nell’aia del cortile, le stesse pannocchie venivano
scaricare delicatamente sul fondo appositamente preparato qualche giorno prima dal contadino
che provvedeva a quel che si chiamava la tecnica di “ambuasà l’éra, cioè coprire tutto lo spazio
dell’aia con il liquame prodotto dalla mescola dell’acqua con la “buasa”, vale a dire la cacca dei
bovini, che aveva la caratteristica di formare come una pellicola uniforme e quasi impermeabile
che aveva il compito di bloccare la polvere e lasciare sempre al pulito i semi del granoturco. Come
si camminava bene scalzi su quella specie di velluto! La granella pulita veniva ottenuta dopo due
ben precise operazioni: la sfogliatura delle pannocchie e dopo che le stesse erano sgombre come
quelle riprodotte nella foto, arrivava la macchina trebbiatrice di Cesco ‘d Mantelli che lasciava i
semi belli puliti da una parte e i tutoli del granoturco dall’altra. Questi ultimi non venivano buttati,
ma costituivano ottimo materiale per le stufe per il riscaldamento invernale delle case contadine.
Anche il gambo secco, che rimaneva nel terreno, veniva rimosso spesse volte con lo scopo di
costituire materiale combustibile per le stufe a legna. Se si fosse potuto, non si sarebbe buttato via niente. Ricordo bene di aver aiutato alcuni miei amici compagni di gioco nella raccolta di questo
infimo materiale, usato dalla loro mamma per accendere il fuoco nella stufa per la preparazione
della cena. Il gas in bombole era infatti ancora sconosciuto. La povertà era una cosa dignitosa e
tutto sommato nobile, se gestita da una buona mamma dell’epoca. Io conservo un ottimo ricordo di
quelle sante persone mie vicine di casa.
Luigi Timo – Castelceriolo

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