Pievi e pellegrini

E’ un vero peccato che la giornata non si prospetti delle migliori.
La spessa coltre di nebbia che riveste il paesaggio ha un aspetto spettrale che mortifica il desiderio di muoversi da casa.
D’altronde non si può pretendere molto dalla stagione autunnale e prima che lo sconforto mi assalga e mi immobilizzi in poltrona, mi preparo a uscire ugualmente, sperando che il mezzodì attenui la nebbia e riservi qualche spiraglio di luce.
Dal momento che siamo ad Ognissanti estendo il concetto di luce alla forma spirituale. Per analogia mi viene in mente la luce che riverbera dalle belle pievi romaniche che costellano la campagna monferrina.
Si fa sempre più insistente il desiderio di visitarle, un desiderio che coltivo da tempo. Non devo nemmeno fare molta strada per raggiungere Cortazzone e così, decisa a raddrizzare una giornata partita con il piede storto, infilo le scarpe, pronta a salire in macchina, diretta verso la luce, ancora una volta in Monferrato.
Le pievi sono, a mio gusto, quanto di bello possa esprimere un’architettura sacra, coincidono con il mio ideale di armonia per la semplicità e l’essenzialità delle forme, per il misticismo che le pervade e per gli enigmi incisi sulla pietra.
La loro storia risale all’anno mille quando si rese necessario cristianizzare popoli venuti da lontano. In breve tempo divennero il polo della vita sociale intorno cui il popolo del villaggio si radunava in occasione di cerimonie civili e religiose.
Nel giro di un’ora raggiungo la meta.
Manca però un dettaglio. Per visitare la pieve occorre ritirare le chiavi dai custodi che abitano nella seconda casa sulla destra salendo verso la chiesa.
A quel punto nella mia testa si impone il ricordo di un’esperienza vissuta in passato che mi fa esclamare: “tutto mondo è paese”.
Una situazione analoga avvenuta in un viaggio in medio oriente.
Durante l’esplorazione del deserto siriano, mi trovai di fronte a una fortezza color ocra molto ben conservata, dai torrioni cilindrici, che si ergeva tra le sabbie.
Un baluardo risalente agli antichi califfi omayyadi che la eressero per controllare il traffico delle carovane dirette in Mesopotamia.
Per accedervi era necessario prelevare le chiavi dalla famiglia che le aveva in custodia. Dopo aver percorso dieci chilometri giunsi alla tenda della famiglia beduina, la quale, dietro un modico compenso, mi consegnò un chiavistello arrugginito che mi avrebbe consentito di entrare dentro le mura del castello.
Il passaggio di mano del chiavistello e le parole incomprensibili che ne seguirono mi fecero pensare più a un rito apotropaico che a un accordo tra persone che solo il caso aveva fatto incontrare.
L’occasione di venire a contatto con il popolo beduino fu la parte più sensazionale di tutti gli accadimenti della giornata, considerando che l’appetibilità del castello erano le mura, le sole ad avere resistito all’incuria del tempo, l’interno era invece andato distrutto.
Regnavano soltanto cumuli di macerie simili agli esiti di un terremoto.
Manca giusto uno sprazzo di sole per donare alla pieve di San Secondo di Cortazzone un contorno migliore. Mi devo accontentare di vederla comparire velata e sospesa nella bava di nebbia dell’immenso prato, circondata dal nulla.
Restituisce un’immagine cristallizzata di culti pagani e cristiani, in uso nei villaggi contadini di quell’epoca, prima che la storia le voltasse le spalle preferendo uno stile  che si andava sviluppando nei nuovi centri urbani.
Sebbene sia stata abbandonata a se stessa non è andata incontro all’oblio bensì ha preservato la sua vera natura senza subire alterazioni, ma diventando essa stessa testimonianza epocale del territorio monferrino.
Di fronte all’ineffabile attrazione di questa pieve dal fascino prepotente, l’animo accede al sentimento e alla fantasia che puntuali si irradiano dal corpo di pietra. Senza stare troppo a pensarci mi avvicino, affondando le scarpe nell’erba fradicia per dare un’occhiata all’interno.
La porta è socchiusa e cigola al tocco.
La sua vista conferma la mia immaginazione.
Bella, di una bellezza mistica ed essenziale, priva di quella ricchezza ridondante di statue e cappelle, comune alle chiese barocche che tanto distraggono l’animo dalla preghiera. Sento una sorta di affinità con il suo stile scarno e disadorno dove di fatto è la pietra a parlare, scolpita per immagini che ruotano intorno al lavoro e ai frutti della terra.
Le sculture ritratte sui capitelli hanno lo scopo di indicare la strada da perseguire in un mix di sacro e profano.
L’agnello, il pavone, le colombe sono tutti simboli che attengono al mondo contadino, alla fertilità della terra, al raccolto e al duro lavoro nei campi.
Man mano che procedo lungo le navate, le rappresentazioni diventano altre, si trasfigurano in immagini abiette, ammonitrici, portatrici di castighi.
Cavalli mostro che zampano sulle teste umane, sirene dalla doppia coda, serpenti, grifoni, tutta una sorta di simbologia dell’orrore che prefigura il destino a cui l’uomo medioevale, sensibile ai miti e alle credenze, andrebbe incontro qualora assecondasse le proprie debolezze.
Spiriti maligni sempre in agguato al minimo cedimento umano.
Un percorso penitenziale visivo che si proponeva di impressionare una civiltà rurale analfabeta.
Sono certa che l’intento abbia avuto gli effetti sperati nell’animo di quei pellegrini che qui sostavano, mentre percorrevano il reticolo di strade della via Francigena.
La luce del giorno tende a calare, annientata dalla nebbia che va gonfiandosi a forza, cancellando il paesaggio.
Non c’è tempo da perdere per omaggiare l’antico splendore delle immagini raffigurate nella parete sud. Anche l’animo poco predisposto non può che provare stupore e meraviglia davanti alla foresta di immagini scolpite che corrono tra i conci di pietra calcarea.
Scene di accoppiamento che hanno poco a che fare con il culto cristiano; al contrario richiamano antichi riti propiziatori della fertilità e poi quel susseguirsi di archetti pensili con motivi vegetali tra cui vi è un omino in pietra aggrappato: non ho la più pallida idea a cosa alluda.
E ancora cornici, nodi e intrecci stupefacenti che mi danno vertigine nei loro movimenti contorti, mentre gli occhi roteano tra le spire tortuose in cerca di un capo e di una coda. La parata di fregi serpeggia lungo la linea perimetrale, in forme e disegni che alludono allo stile dei codici miniati, primo fra tutti: il “Book of Kell’s” che ebbi la fortuna di vedere proprio con i miei occhi durante un altro dei miei viaggi in Irlanda e custodito al Trinity College di Dublino.
I celti, come racconta la storia, furono uno dei popoli che occuparono il Monferrato. Portatori di una cultura estranea, con il passare del tempo abbracciarono la nostra fondendosi nel processo di cristianizzazione.
Le opere dalla forma imprecisa non recano il nome di chi le ha realizzate, ma denotano il talento di chi le ha eseguite, talento che deve tener conto, non ultimo, della difficoltà nel forgiare una pietra altamente friabile simile a sabbia bagnata.
Figure che trasmettono presagi rivolti all’animo sensibile di una comunità contadina predisposta alle superstizioni.
Non si può che restarne sopraffatti, complice la nebbia e l’oscurità che incombe.
Non so voi, ma a me capita sempre di accedere all’anima dei luoghi, specie in una giornata come questa dove non c’è nessuno a distrarmi. Sola, a tu per tu con il miracolo della pieve.
La luce cala inghiottita dalle ombre della sera. Non posso più trattenermi e allora mi preparo al ritorno, quando un improvviso brusio mi coglie di sorpresa.
Alcuni devoti animano il sagrato della chiesa; forse un gruppo furtivo di pellegrini attende la luce dell’alba? Chissà chi sono costoro? Non chiedo nulla e tiro dritto.
Poi una luce fioca attira la mia attenzione. Proviene da una locanda dentro cui si muovono sagome umane, gente che beve e banchetta rifocillandosi al calore del camino.  Mi avvicino e metto a fuoco.
Vedo nitidamente l’oste panciuto avvicinarsi ai pochi tavoli con il fiasco in mano.
Qualcuno bussa alla porta della locanda, sembra  venuto da molto lontano. Mi avvicino ancora un po’, curiosa di vedere.
Ha indosso un mantello con l’inconfondibile simbolo della conchiglia di San Giacomo. Infreddolito, si scalda le mani con il fiato. La lama di luce gli taglia in due il viso orlato da una barba incolta. Resta in attesa che l’oste gli apra.
Suppongo gli domandi un giaciglio per passare la notte o un riparo dal gelo in qualche fienile lì intorno.
Poi tutto svanisce tra i vapori umidi della nebbia.
Procedo a tentoni un po’ disorientata in cerca della mia cinquecento, lasciando i personaggi al loro destino.
Non so quanto di vero ci sia, stento a crederci anch’io e suppongo che anche voi storcerete il naso e penserete che sia tutta una messinscena.
Per questo chiedo venia!
Sappiate però che la nebbia e l’oscurità giocano brutti scherzi. Labile è il confine tra realtà e immaginazione, specie in un luogo che trasuda storia e  spiritualità.
Con questo voglio dire che è facile cadere nella trappola del tempo e farsi prendere per mano dalla fantasia e con essa percorrere sentieri impraticabili nella realtà.

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