Giarole, il paese dalle due anime

Desolazione è, d’acchito, la sensazione che ho provato nel vedere Giarole. Forse sarò un tantino pedante a pretendere che ogni luogo del Monferrato risponda a quei canoni di bellezza paesaggistica a cui sono abituata. Ho immaginato Giarole bella, per il solo fatto di possedere un castello e appunto per questo credevo che ovunque regnasse qualità e magnificenza. Invece, dalla notte dei tempi a oggi molto è cambiato, il paese si è evoluto in un moderno nucleo urbano cancellando definitivamente ogni traccia del suo glorioso passato. La campagna, se tale si può ancora chiamare è ridotta all’osso, costellata di capannoni industriali, alcuni finiti in pasto alle ortiche o ad arbusti selvatici, che non alletta i miei pensieri. A fianco corre la strada statale diretta ad Occimiano e a Valenza, mentre, se ci si spinge all’interno in una delle tante stradine che separano un campo dall’altro, lo sguardo non può che posarsi sull’unico binario ancora in funzione, la linea ferroviaria che collega Giarole a Casale Monferrato e viceversa. A dirla giusta però non so dire da quanto tempo sia transitato qui l’ultimo treno per Casale o viceversa. Le reti sfilacciate e scolorite di un cantiere ne hanno interrotto il passaggio, suppongo da molti mesi ormai.
La stazione ferroviaria è un edificio solitario, abbandonato a se stesso che ha sospeso ogni funzione. In testa campeggia la scritta sdentata della località con le colature di colore lungo il muro. Mi sembra tanto una vedova piangente che aspetta il ritorno del suo amore perduto. Poi, tutto accade nello stesso istante che la desolazione, quel senso di vuoto appena provato, vagando per la campagna di Giarole, si trasformi in immediato stupore.
Un riscatto per i sensi è l’apparire del castello in lontananza che squarcia, con la sua prepotente bellezza, il paesaggio piatto e amorfo. L’anima bella di Giarole è tutta lì, tra le mura dell’antichissimo castello, sopravvissuta al tempo, una scheggia di medioevo strappata all’oblio. Un castello, vivo e vegeto che per ben novecento anni appartiene alla stessa stirpe: la famiglia Sannazzaro che lo abita, fin da quando, nel 1163, a quattro cavalieri della famiglia Sannazzaro venne conferito un diploma dall’imperatore Barbarossa per l’edificazione del castello.
Un grande parco lo circonda. Intrufolarsi è una tentazione troppo forte. L’ingresso è aperto, le visite guidate stanno volgendo al termine, ma c’è ancora abbastanza tempo per dare un’occhiata intorno. Le scuderie sono aperte, ma cavalli non ce ne sono. Restano i cimeli di proprietà di famiglia: copricolli e gualdrappe nere, bordate d’oro, penzolano dai box, per mostrare al pubblico quali fossero un tempo gli ornamenti da parata.  Questa è l’aria che si respira lì intorno. Davanti al grande cancello in ferro, che poi è l’ingresso principale, invece staziona un auto d’epoca su cui incombe la banderuola di un galletto, mentre nel fossato, a fare gli onori di casa, ci sono due grandi maremmani scatenati che corrono all’impazzata tentando di arrampicarsi al muro con l’intenzione di sbranare, con le fauci spalancate, i passanti.
I proprietari li chiamano “i coccodrilli” e nessun nome potrebbe essere più adatto. Dal cancello esce un uomo con un pennacchio sul cappello e una valigetta in pelle stretta tra le mani. Si guarda intorno furtivo, sale in macchina e a tutto gas si allontana. Ho pensato avesse trafugato qualche oggetto d’arte.
Per un momento ho creduto fosse la scena di un romanzo giallo e, tenuto conto dell’atmosfera, uno di Agatha Christie. Avrebbe potuto essere l’incipit di uno dei suoi tanti scritti, l’ambientazione ideale per “il segugio della morte” o “c’è un cadavere in biblioteca” o ancora “Poirot a Styles Court” per fare alcuni esempi.  Oppure il set di un film sovrannaturale con il solito fantasma che si materializza in qualche stanza del castello, accendendo le luci per mania di protagonismo, ma questa non è che la leggenda più accreditata di cui il castello va fiero.

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