Ferdinando Caputi: “Venite con me, vi prenderò per mano, e vi porterò nel meraviglioso mondo della mia materia, l’archeologia”

Ferdinando Caputi è Direttore Nazionale presso Centro Internazionale di Studi e Ricerche Etnografiche Italiano.
Ha studiato Paleoantropologia presso Campus of the University of California, Berkeley e Paleoantropologia
presso l’Università di Genova dove si è specializzato in Archeologia e Paletnologia con il Prof. Santo Tine’.
E’ Direttore Nazionale del CISREI.
Si dedica a conferenze ed interventi divulgativi sugli oggetti dei suoi studi.
Ad abundantiam, è autore di ottimi dipinti.
Abbiamo il piacere di annoverarlo tra i nostri collaboratori e gli abbiamo chiesto di renderci partecipi della sua passione e competenza.
Questo il suo piacevole ed interessante intervento.

Continua a leggere l'articolo dopo il banner

“L’archeologia da sempre è il filo che ci lega al nostro passato più antico, raccontando luoghi uomini, donne.,
rituali pur tuttavia non fermarsi solo a questo: ma non è altro che un modo diverso di fare storia partendo
dagli aspetti materiali delle vicende umane per affrontare in certi casi anche le situazioni più delicate del
nostro vivere attuale. L’avventura dell’archeologia iniziò molto tempo fa : già durante l’Antichità era chiaro
che il terreno nascondesse delle tracce. Ce lo dice Tucidide (V sec. a.C.) che ci parla della scoperta a Delo di
sepolture antiche, che dimostravano attraverso i loro corredi la presenza nel territorio di personaggi venuti
dalla Lidia (Anatolia). Poi la mia materia ha fatto passi da gigante soprattutto a partire dal XIX secolo, e a
venire ci ha consegnato un’immagine sempre nuova e diversa del nostro passato. In tutto questo è
importante sottolineare un elemento-chiave, il cambiamento continuo nel tempo che ha fatto si che
cambiassero i metodi e le tecniche d’indagine, ma innanzitutto è cambiato l’approccio con il tempo antico,
attraverso una decisa evoluzione del pensiero archeologico.
Cominciamo il viaggio con Schliemann e Troia. Un pioniere Heinrich Schliemann (1822-1890) è un
personaggio fondamentale. Punto di riferimento per l’affermazione della disciplina , è in realtà un uomo
completamente digiuno di metodi archeologici: solo grazie alla sua ricchezza economica, ruba
letteralmente, il sito di Troia al suo scopritore, il diplomatico Inglese Frank Calvert (1828-1908). A
Schliemann va riconosciuta comunque una grande capacità imprenditoriale: l’aver saputo costruire una
vera leggenda su Troia e su sé stesso, legando per sempre il suo nome a quello della città antica. Detto ciò
quella dello studioso Tedesco è tuttavia ancora un’archeologia che tiene conto molto delle fonti scritte,
con Omero che indica la strada e gli archeologi che vanno sul campo ad identificare i luoghi.
“Vedo cose meravigliose…” Un approccio completamente diverso è quello di Howard Carter (1874-1939):
stavolta l’oggetto dell’indagine non è una città ma una tomba, quella di Tutankhamon, scoperta nel 1922. E
cosa resta soprattutto di quella impresa? Il fantastico corredo del faraone bambino, perfettamente
descritto dallo scambio verbale tra Lord Carnarvon (finanziatore degli scavi) e Carter; uno all’esterno della
tomba, ansioso, e l’altro dentro praticamente in trance: “Cosa vedi?”, “Cose meravigliose…” E’ una branca
della mia materia, legata alla sfera funeraria , perché in questi contesti si scoprono i cosiddetti “tesori”;
oggetti integri e, magari, anche molto preziosi. Un altro stereotipo che ci portiamo dietro da molto tempo:
l’archeologo disturbatore di morti e scopritore di tesori.
Paolo Matthiae scopre Ebla… Contemporaneamente nello stesso periodo tra l’800 ed il 900, si susseguono
altre grandi scoperte, epocali in tutto il mondo. Tra queste , l’enorme, sterminato complesso religioso di
Angkor Wat, in Cambogia; oppure Machu Picchu, in Perù: una residenza imperiale degli Incas, individuata e
scavata dallo statunitense Hiram Bingham (1875-1956), intraprendente figura di
storico/esploratore/fotografo. Questa è una costante di tutta la storia dell’archeologia: le città scomparse, i
luoghi abbandonati e poi dimenticati dagli uomini. Fino ad arrivare ad Ebla la città della Siria scoperta nel
1964 da Paolo Matthiae, il quale stavolta invertì il rapporto tra archeologia e fonti scritte: invece di
ritrovare una città seguendo le indicazioni dei testi, scoprì una città , dentro la quale venne alla luce un
archivio, pieno di notizie su religione, commerci, e molto altro sul Medio Oriente antico.
Nuova parola per il dizionario archeologico; stratigrafia. Nel secondo dopoguerra avvenne un improvviso
e veloce cambiamento. Nessuno inventò lo scavo stratigrafico, ma ci fu un personaggio che lo formalizzò, lo
raccontò in un manuale. Fu il Britannico Mortimer Wheeler (1890-1976) con il suo Archaeology from the
Earth, pubblicato nel 1954, Da allora le cose per noi non sono state più come prima: l’archeologia comincia
a viaggiare su basi metodologiche riconosciute e condivise. E divento tutta un’altra storia. Le prospettive
sono cambiate.
Col tempo la disciplina si fa sempre più precisa, accurata e a volte ci mette faccia a faccia con le nostre
origini più antiche: come accade con la scoperta di Lucy (Australopithecus Afarensis femmina 3.250.000
anni), fatta dal caro amico e mentore, relatore della mia Tesi di Dottorato in Paleoantropologia alla
Berkeley, Donald Johanson che trovò i resti sull’Altopiano dell’Afar in Etiopia. O come il caso della mummia
di Similaun, il cadavere di un Sapiens Sapiens naturalmente mummificato risalente al IV millennio a.C.,
scoperto per caso da due turisti nel 1991 sul confine tra Italia ed Austria in un ghiacciaio ed ora esposta a
Bolzano. Altre volte l’archeologia si spinge più in là abbattendo qualsiasi barriera temporale. Perché alla
fine l’archeologo non è altro che uno storico che concentra la sua attenzione sulle tracce e sui resti
materiali del passato, cercando cioè riscontri oggettivi dando così fonti veritiere alla storia stessa,
inconfutabili ed inoppugnabili. Fino ad arrivare alla “nostra archeologia” E allora sono possibili imprese
come quella dei colleghi alla Crypta Balbi , il grande cantiere di scavo che ha fatto luce su un intero isolato
di Roma dalle prime fasi di occupazione fino ai giorni nostri, raccontandoci una lunga storia urbana con
tutte le sue continuità ed interruzioni. Ma si capisce anche il senso di fare Archeologia Medievale, una
disciplina prima inconcepibile (quando si pensava che noi dovessimo arrivare al massimo fino all’epoca
Romana); e si rendono possibili nuovi scenari che potremmo definire l’”archeologia contemporanea”. Come
l’Undocumented Migration Project, un’indagine sui migranti che attraversano il deserto di Sonora tra
Messico e Stati Uniti, condotta interamente con metodi archeologici: ricognizione del territorio,
individuazione dei siti (come i luoghi degli arresti, nei quali si ritrovano le manette di plastica usate dalla
polizia locale) e tipologia delle bottiglie d’acqua e degli zaini.
Disciplina che non finisce mai. Resta il fatto che uno dei maggiori motivi di facino della mia materia è che
non ha mai fine. Non hanno fine le ricerche su Stonehenge, che sembrava aver detto tutto ed invece con i
nuovi scavi ci sta raccontando storie inedite, come la costatazione , che questo sito era parte di un
paesaggio rituale con villaggi e monumenti per i vivi e per i morti non dimenticandoci che i megaliti sono
stati posti in essere 12.500 anni fa. Poi continue scoperte casuali: come l’esercito di terracotta in Cina a
Xi’an (III sec. a.C.) per la maggior parte ancora da tirar fuori nonostante le 8.000 statue tirate fuori. O il
tesoro dello Staffordshire (VII sec. A.D.) più di 3.500 oggetti di metalli preziosi, ritrovati per caso con un
metal detector, e chissà quali altre sorprese ci riserverà il futuro…
Una vera macchina del tempo. Ed infine c’è la divulgazione (conferenze, convegni ecc.) da sempre. Perché
l’archeologia affascina prende allo stomaco del grande pubblico. Perché è una vera macchina del tempo,
che ci mette in contatto diretto con il passato, con chi non esiste più, con le città, le civiltà sepolte. Lo
sapeva Agatha Christies (1890-1976), che sposò un Archeologo (Max Mallowan) e passò buona parte della
sua vita sugli scavi, scrivendo anche gialli d’ispirazione archeologica. Lo sanno bene i registi cinematografici
che prima ci hanno consegnato la saga di Indiana Jones e adesso iniziano a raccontarci un’archeologia meno
legata ai tesori, più veritiera, e meno predatoria. Un esempio? La scoperta fatta dai colleghi inglesi a Sutton
Hoo, raccontata perfettamente nel film “The Dig”, un grande passo in avanti verso un metodo di
divulgazione corretto. Ora potete lasciarmi la mano ed andare per le vostre strade che percorrerete con più
conoscenza e con più leggerezza.
Ferdinando Caputi

Print Friendly, PDF & Email