In un incantevole angolo di Monferrato, Cella Monte, la presentazione di un libro…pieno di incanto: “Colline di carta”, di Silvia Perosino.

Era una notte buia e tempestosa…oppsss…ma siamo in una vignetta di Snoopy? No, è vero: era veramente una notte buia e tempestosa, quella prima volta di tantissimi anni fa nella quale sono stato a Cella Monte. Non sapevo nulla di Infernot…anzi, non sapevo neppure dove fosse Cella Monte. Eh sì, allora andare a far turismo in Monferrato, no, non si usava proprio… ricordo bene il Presidente dell’Associazione che organizzava PianoEchos, le settimane pianistiche in Monferrato, più di dieci anni prima che l’UNESCO inserisse il Monferrato nella lista dei Patrimoni dell’Umanità, che prima dei concerti tuonava: Questo nostro Monferrato non ha nulla da invidiare a tutti i luoghi più famosi del mondo, dove si organizzano festival musicali, questo nostro Monferrato è una terra magnifica! Lo diceva spesso; io un po’ sorridevo, scettico…ma lui aveva ragione e io avevo torto.

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Ma a Cella Monte, quella notte di tanti anni fa, c’era davvero una notte buia e tempestosa, con lampate sempre più veloci, che illuminavano le colline, e un odore diffuso di pioggia nell’aria. Fu una serata memorabile, fra una passeggiata stupita, ad ammirare le antiche mura, gli splendidi luoghi di quella che, venni a sapere più tardi, era stata delegata a luogo di villeggiatura dal Vescovo di Casale Monferrato, con una visita molto improvvisata, ma molto emozionante, ad alcuni Infernot, scavati in quella strana pietra che tufo sembrava ma non era, oppure sembrava arenaria, e neppure proprio era…era qualcosa di milioni di anni fa, quando tutto era solo un mare che milioni di anni dopo venne chiamato Mediterraneo. Ma allora mica si parlava di un “Bene protetto dall’UNESCO”, di gente che veniva da luoghi lontani e parlava lingue diverse mica ce n’era, ma và…allora i padroni di casa ti facevano fare un giro nella loro cantina, che, sì, volendo la chiamavano Infernot, e ti facevano capire quanto si mantenesse bene, in quelle carceri vinicole, il loro grignolino, e poi ne stappavano una, ed etichette mica ne vedevi, e via ad assaggiarne un bicchiere davvero buono. Poi quella notte tutto tracimò in diluvio, e tuoni e lampi fra quelle dolci colline che erano diventate orribili ed ostili.

E ora è tutto diverso, tutto pulito e ben restaurato, senti lingue diverse e vedi gente che gira, in un sabato pomeriggio di fine maggio, a visitarla, questa incantevole Cella Monte, con i suoi scarsi 500 abitanti, e la presentazione di un libro, che la fanno in un posto dal nome complicato: Ecomuseo della Pietra da Cantoni di Cella Monte, che ospita uno dei pochissimi Infernot non in abitazioni private, che ospita soprattutto la voglia di esplorare un mondo lontanissimo nel tempo, di quando tutto era mare, di farci un luogo visitato e visitabile e accogliente. Non conosco il nome della persona che mi ha spiegato un po’ di queste cose, ma riconoscerei ovunque quello che aveva nella voce: la genuina passione per le cose che mi narrava! Accanto alla sala, o meglio alla freschissima cantina, dove Silvia Perosino ha presentato il suo libro, c’è un presepe, la cui base costruttiva è composta da tanti pezzi di Pietra da Cantoni, la stessa da cui furono scavati gli Infernot. Me ne porge una: Senta com’è soda eppure leggera…mi dice, ed io la palpo, la accarezzo, la stringo…ho la sensazione di avere fra le mani qualcosa di diverso, qualcosa di vivo. Sono ammirato e colpito. Lui mi guarda, credo sia preoccupato…forse pensa che voglia portarmela via, quella strana pietra…forse aveva ragione…la restituisco, non del tutto felice di farlo…

Ma prima della presentazione conosco il Sindaco, Maurizio Deevasis, che scopro essere non solo molto simpatico, ma anche cugino di primo grado di miei antichi e carissimi amici, che tutt’ora con piacere frequento. E allora parliamo di loro, ci stringiamo la mano e ci diamo del tu, in un’atmosfera davvero di squisita cordialità. E la presentazione? Com’è andata? Ma molto bene, direi. Silvia ha parlato poco, poco di sé e poco anche del libro, che forse è un po’ quello che voleva. Al tavolo con lei, dopo l’orgogliosa ed appassionata introduzione della Presidente de I Marchesi del Monferrato, Emiliana Conti, che è nientepopodimeno colei che il libro ha fortissimamente voluto, c’erano il direttore dell’Associazione per il Patrimonio dei Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato, Roberto Cerrato, per i cui tipi della Langhe Roero e Monferrato è stato stampato il libro, e il presidente dell’Accademia di Agricoltura di Torino, Marco Devecchi. Le hanno fatto domande tranquille e rasserenanti, in un clima rilassato e sorridente, come è giusto che sia, e messa così pienamente a proprio agio. E hanno parlato molto di territorio e di Unesco, ed è pure quello giusto, per Cella Monte, per il Monferrato che ci circondava.

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Ma poi c’è lei, Silvia. E il suo libro, di cui ora vorrei parlarvi io. Una recensione, pur breve, per farvi capire che si tratta di un libro davvero fuori dall’ordinario, un libro che saprà incantarvi davvero. Iniziamo da Silvia, che poi conosco solo da un anno, precisamente dal salone del Libro 2022, ma che da allora ho avuto modo di apprezzare, e molto, come artista eclettica, che passa dalla grafica alla recitazione, dalla scrittura all’insegnamento. Provo nei suoi confronti un forte senso di ammirazione, proprio per essere in grado di esprimersi in così tanti modi…e di saperlo fare bene! Che poi Silvia sia dotata di una scrittura evocativa ed affascinante, beh, questo a lei l’ho detto quando ho letto un suo scritto, il primo dedicato alle strane sculture che emergono tra le colline del Monferrato, opera di Giorgia Sanlorenzo. Che ho conosciuto brevemente dopo la presentazione e ho fotografato con Silvia.

Io mi sono sentito coinvolto da subito, nel libro di Silvia, sin da quando ho saputo, da lei medesima, che c’era l’idea di pubblicare una silloge dei sui scritti, ovviamente da lei stessa riveduti e corretti, perché la sua scrittura mi affascina e appassiona moltissimo. Ho anche cercato, quando ho potuto, di darle una mano…come per l’affaire Fenoglio. Ve lo spiego. Nel suo libro Silvia parte sempre da un qualche testo letterario, uno o più, a cui ispirare – o, magari, per far respirare – la sua narrazione. Che non è una narrazione di fantasia, ma piuttosto una sorta di passeggiata sentimentale, attenta e nello stesso tempo svagata, colta ma nello stesso tempo popolare, letteraria ma nello stesso tempo colloquiale. Non ci avete capito niente? Vabbè, dopo cercherò di spiegarmi meglio!

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Ma torniamo a Gorzegno, o meglio a Fenoglio. Che vi farà capire quanto nei suoi testi sia rigorosa, Silvia. Perché a lei capita di leggere online la citazione di un breve testo di Fenoglio, tratto da un suo testo minore, anzi, neppure un testo, ma solo una specie di diario (17 pagine in tutto, e il resto del libretto introduzioni e postfazioni varie) pubblicato nel 2007 dal Centro Culturale “Beppe Fenoglio” di Murazzano. Vorrebbe iniziare il capitolo dedicato a Gorzegno (e alle pietre che parlano) con questa citazione fenogliana. Perché a Gorzegno Fenoglio ha ambientato uno dei suoi più famosi racconti: Un giorno di fuoco.

Silvia però è puntigliosamente rigorosa: non vuole citare un testo preso a sua volta da una citazione, se non ha trovato e letto la fonte: vuole la certezza del testo. Nel nostro quasi quotidiano contatto online, mi chiede se riesco a darle una mano. Allora faccio ricerche e scopro che una copia di quel Diario fenogliano è possibile averla in prestito alla Biblioteca di Alba. Alla prima occasione ci vado, recupero (beh, insieme ad altri libri) quel testo, trovo la citazione, telefono a Silvia e le leggo il (breve) brano, ma per maggior peso le mando pure una foto su WhatsApp del brano di cui si tratta. Silvia sospira soddisfatta: Mi hai tolto un bel peso dallo stomaco – sorride, ed io pure. Ed eccolo qui, l’incipit del pezzo su Gorzegno, che parte dalla citazione fenogliana: “È l’estate del 1954 quando sul suo diario personale, Beppe Fenoglio annota, come a segnare una certa urgenza pronta a prendere forma narrativa: Prepotente mi ritorna alla memoria il gran fatto di Gallesio di Gorzegno. Debbo rinfrescarmi i particolari. Ci vorrebbe una scappata a Gorzegno: la casa per sempre muta dei Gallesio, dove s’è fermato il fumo degli spari, il castello spettrale, l’acqua violacea della Bormida avvelenata.”.

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Ed ecco, dopo questa introduzione al suo rigore di ricercatrice, lasciate allora che provi a spiegarvi come procede, nel suo narrare, Silvia Perosino. Vi parlerò della sua passeggiata sentimentale, letteraria e analitica, dove ci racconta proprio, tra tante altre cose, di Cella Monte e degli Infernot. Già: tra tante altre cose e spunti di riflessione e bellezza. Perché la narrazione parte da lontano, con un paio di citazioni dall’immenso romanzo Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi. Con quel suo straordinario personaggio che è Tilde Giordano, che, nel 1944, era fotografa per capire la realtà che la circondava, spesso nei minuti dettagli che ne evidenziano la profondità. La riflessione di Silvia è: (…) fotografia come rivelazione di una briciola di realtà, come strumento per restituire in parte “quello che siamo” attraverso “il come lo vediamo”, aiuta a comprendere forse la mia percezione di quanto ogni cosa, ogni luogo, ogni casa, abbia una sua storia da raccontare.

Poi Silvia introduce un Secondo tema. Con questa riflessione: Anche le nostre, di case, custodiscono spesso memorie accatastate nel tempo, accantonate in attesa di tempi migliori. Cita quindi un romanzo di una scrittrice casalese, Raffaella Romagnolo, La masnà. Il tema è il rifugio, perché c’è Carlin che deve nascondersi dai rastrellamenti, c’è Emma che lo vuole nascondere…e c’è un luogo, necessario, un nascondiglio. Un luogo oscuro, piccolo e umido. Un Infernot? Quasi. Ma ecco che, magistralmente, Silvia trasporta tutto sul piano del ricordo personale, dove la finzione letteraria prende spunto dalla realtà, e la realtà diviene l’eco di racconti sentiti da bambina, che sembravano di giorni lontanissimi, giorni che invece ancora oggi mastichiamo come radici amare senza riuscire a mandarle giù. Ed ecco introdotto il tema di un percorso storico e sentimentale che porterà a Cella Monte: Nei medesimi ricordi l’Infernot era un anfratto scavato nella roccia, una sorta di grotta preistorica nella quale non avevo mai messo piede, che chissà dove conduceva, chissà cosa poteva nascondere.

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Ma prima di giungere a Cella Monte e al suo Ecomuseo della roccia da cantone, occorre un’altra tappa, in bilico fra mito e storia: Cariglie di Mombaldone, piccola frazione delle colline astigiane, poco prima della frazione Meridiana di Settime. Ed è lì che Silvia trova le case grotta, che sono tipiche abitazioni rurali, testimonianza di una vita contadina dura e faticosa, scavate nel fianco della collina, situate al riparo dai venti del nord, difese d’estate dai raggi più violenti del sole. Vi invito a leggere la stupenda riflessione di Silvia: Sembra di entrare in un fotogramma di un film ambientato agli inizi del Novecento, di parlare contemporaneamente di un’altra epoca eppure di un tempo così vicino; il tempo che era, nel mio caso, ancora solamente dei miei nonni, o dei nonni dei miei genitori. Un volgere lo sguardo indietro, senza neppure torcere troppo il collo.

Ecco quindi che, dopo questo mettere al sole diversi temi, Silvia ci porta a Cella Monte. Dove intraprende una passeggiata storica, osservatrice e decisamente coinvolgente, e dove, naturalmente, va a visitare gli Infernot. Dove Non è semplice riuscire a restituire l’emozione che si prova guardandosi intorno, ragionando sulla complessità delle forme che si sono raggiunte e che, in taluni casi, denota una profonda varietà nelle soluzioni decorative. Non vi dirò altro su questa visita di Silvia agli Infernot di Cella Monte. Vi invito a leggere il libro (magari anche come viatico per una visita consapevole agli Infernot stessi), assicurandovi che al termine di questo capitolo si resta estremamente colpiti da questo scrivere in forma coinvolgente eppure rapsodica, che però propone una profondità di punti di vista (storia, tradizioni, vicende) e di visioni che definirei acutamente poetiche. Perché, così termina questo indimenticabile excursus nel mondo degli Infernot: Alla fine, c’è sempre una storia da raccontare; a volte, quella storia, siamo noi. Già, il raccontare di Silvia, che è quello di tutti noi. Di tutti noi che ci specchiamo in questo suo sapiente raccontare.

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