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Dove s’è perduta la mia anima di donna? “La Signora Sandokan” a Spigno con una straordinaria Paola Sperati.

In scena, nella semioscurità, una donna, sdraiata su una brandina, coperta da un lenzuolo. I nostri occhi percepiscono il disperato squallore di un manicomio. La sua infinita desolazione. Già all’ingresso ci attendevano, serissimi e cupi, un’infermiera – Silvia Perosino, che ha curato scene e regia – in abbigliamento inizio ‘900 -, e un medico; lui con uno stemma del regio manicomio di Torino cucito sul camice antiquato: ci offrivano una scheda clinica. La scheda di una donna, Ida Peruzzi Salgari, la moglie del creatore di Sandokan, La Signora Sandokan, appunto. La diagnosi era evidente: follia.

E prima che tutto abbia inizio, una voce fuori campo ci narra la follia di Ida: Il dottor Erminio Heer non l’aveva mai vista in quello stato. Scomposta negli abiti, scarmigliata, le labbra bianche e schiumose, addossata a un angolo della cucina come una volpe ferita, la signora Ida Salgari ansimava e rantolava. E tutto questo nella loro casa di Corso Casale a Torino, davanti agli occhi attoniti e spaventati di Emilio e dei loro quattro figli…il Dottor Heer scrisse, gelidamente burocratico, una terribile sentenza di morte vivente: Io sottoscritto, medico municipale, dichiaro che la signora Salgari Ida è affetta da mania furiosa con tendenza ad atti impulsivi che la rendono pericolosa a sé e agli altri, per cui è urgente il suo ricovero al Manicomio. La portarono via con il cellulare della polizia, come fosse una belva feroce: Ida era stata fatta sedere con l’infermiera nel vano posteriore, al posto che normalmente spetta ai ladri e agli assassini. E la portarono alla sua meta: il Regio Manicomio, reparto indigenti. Tutto questo prima. Poi, tutto inizia.

Tutto inizia con l’infermiera, che, nella penombra, entra nella stanza di Ida e le srotola le lenzuola di dosso, poi, senza un ulteriore gesto né una parola o un sorriso, esce dalla stanza di clausura di Ida, e va a sedersi lì fuori. Inespressiva, immobile, ieratica…una sorta di corrucciato angelo guardiano di un angolo di orrendo purgatorio. O era un inferno? L’inferno che brucia l’anima di Ida. L’inferno di un’assenza, l’inferno di un suicidio. Si, perché Ida ha saputo da poco che il suo amatissimo Capitano, Emilio, si è suicidato…orrendamente, ed incurante di quei quattro bambini lasciati soli…Ida si alza, lentamente. In ogni suo gesto, nello sguardo, nella smorfia dolente che porta in viso: tutto grida la sua totale disperazione. Si alza, va alla porta ad inveire contro Anna, l’infermiera, ad inveire con un fortissimo accento e parole in dialetto veneto…inveire e chiedere pietà: Anna, bagascia, amica mia, unica amica che go qua dentro, in questa casa di sputo e di occhi persi, occhi nocenti, occhi morenti, occhi rosicati… Anna! Puttana di Porta Palazzo! Apri ’sta porta, ti prego, entra, sollevami, solleva la tua amica Aida che sta soffrendo e vorrebbe morire. Vorrebbe morire come il suo uomo, il suo capitano…

Tutto ciò fa Paola Sperati, ovvero Ida, ovvero entrambe, che davvero lei è Ida, profondamente, e quest’invettiva la grida, la sibila, la modula, la vive, la piange e la sputa…un’interpretazione straordinariamente coinvolgente, che lascia me, tutti noi, senza fiato…Poi Ida va a sedersi, e guardare il vuoto oltre il palcoscenico, e narrarcela, quella morte, con gesti eloquenti: la morte di Emilio Salgari, il suo Capitano… Non ce l’ha più fatta… e come un samurai… come un vero uomo desperà… col rasoio… da qua in su… proprio da qua, dal ventre, dal ventre suo amatissimo, come cercando il cuore che non sopportava più niente… e poi la gola… tutt’intorno, da oregia a oregia, da finirla perbene…Un povero uomo disgraziato, senza la sua Ida…

E poi quella voce, quegli occhi, quel corpo leggero di Ida – di Paola – si trasfigurano nel ricordo della giovinezza veronese. Si, perché non so se tutti lo ricordano, ma Salgari ha sì vissuto a Torino per lunghi anni, ma era nato a Verona, dove Lui faceva il giornalista alla «Nuova Arena» e io la cantante, l’attrice… Sorride, ora, Ida, sorride e sogna ad occhi aperti, e si muove sul palco, mentre alle spalle si materializza un manifesto da Caffè Chantant, con movenze tenere, malinconiche e grottesche, nella sua rimembranza di ballerina innamorata del bel giornalista…E Paola, sì, è grottesca, ma anche leggera, languida ed efficacissima. E quasi sognando, ecco come ci esprime questo suo struggente ricordo: Era focoso, mi faceva una corte, ma una corte, da levarmi il fiato… Piaceva anche a me… e non ci pensai due volte ad andare a casa sua, una sera, per aprirgli le braccia, per aprirgli tutta me e per baciarmelo di passione, da amante vera che ci aveva il cuore sui labbri, e tremava liquefatta. E Paola sul palco esprime, con la modulazione della voce e del corpo, tutta la femminilità di una donna giovane e sinceramente innamorata…potere della rimembranza! E poi lui che le scrive una lunga lettera inamorada, gonfia di retorica, ma anche di tanta, tantissima passione, che lei ha imparato a memoria, a furia di rileggerla. Lui che la chiamava Aida, ovviamente quella celeste, quella verdiana, e che sprizzava gelosia da tutti i pori. le metteva biglietti nella borsetta, per sapere se un altro uomo le avesse morso il cuore…Ida ricorda, e com’è straziante questo suo ricordare…

Però poi era lui a tradirla con altre donne, mentre lei, al contrario, era davvero innamoratissima e fedele. Tra grida dolenti e disperate Ida ricorda – e ci narra – di quella volta che lui andò sul lago di Como con un’inglesina, per poi negare di essere stato fedifrago…e lei nel ricordo lo insulta gridando parolacce ancora intrise di gelosia: Porco! Traditor! Assassin!. Anche perché pure a Torino Lui faceva le scorribande… Le madamine, le cocottine, le smorfiosanti, e pure qualche madamazza… – Paola lo dice con le più eloquenti smorfie, pensando a quelle smorfiosanti – che termine straordinario! – È vero che è stato nei Mari del Sud, capitano? Mica domandavano: miaulavano le porche, a bocca stretta…come cul de galina…Anche in quelli del Nord, rispondevi tu, bugiardando, ché mai e mai eri montà sur un battello! Già, perché il Salgari, scrittore di tantissimi mirabolanti libri d’avventura (ne ha pubblicati più di 80!) i suoi viaggi li faceva…in biblioteca…sulle mappe e sugli atlanti, ma di fatto mai si trattò di veri viaggi. Ma poi nel narrare dei tradimenti del suo Capitano, Ida cede al dolore, narra di come cullava i suoi quattro bambini stretti nel letto nei momenti di disperata solitudine: Mi sono stretta a Omar, a Fatima, a Nadir, a Romero, me li sono stretti al petto come quattro pulcini e ho pianto…e il viso gli occhi la voce di Paola sono straordinariamente teneri e disperati, una bambina che stringe e culla dei bambini…un momento di infinita tenerezza…

Poi, ecco una sorta di allucinata preghiera alla Madonna, espressa con voce atona, già staccata dalla propria corporalità, per chiedere la grazia della morte, della fine di una vita ormai senza senso: Maria, pietà de mi, me varda, no voi più vociare, basta gridare, basta sputare sangue, un sepolcro, prepara un sepolcro funerizio anca per mi, apprettalo, ché no voi più vociare, perché sono stanca di fatiga, perché sono già morta…Ma poi, come in un sussulto di vita, ecco spuntare non uno ma due ricordi meravigliosi. Il primo di quando Salgari narrava, a lei e ai figli, le vicende scritte nelle sue avventure: Se tu avessi sentito quella voce, Anna, se tu l’avessi sentita come la sentivo io, roca e soffocata, tremeresti come io ho tremato… di tenerezza… d’amore orgoglioso… Quella voce ti portava giù, Anna, nella cantina dell’incantamento, in mezzo alle ceste dei costumi, agli attrezzi del teatro mondo, ai fondali delle profezie… e com’è incantata ed incantevole Paola, la sua voce, il suo viso trasfigurato di gioia, mentre ci fa vivere con lei questo ricordo. E poi, il ricordo altrettanto meraviglioso di quando Ida ha scritto al posto di Emilio, quando lui stava male. Lei non vorrebbe, lui insiste, e allora Io, per obbedirgli, con la mano che tremava cominciai a scrivere. E il demone della scrittura la prende, le piace, lo vive con genuina gioia, questo scrivere, che peraltro viene apprezzato da Emilio, che per ringraziarla, in un gesto tra il tenero e l’erotico, si inginocchia e le bacia l’ombelico. Ma non solo, perché nella scrittura lei – Paola lo dice come un delicatissimo sussurro, un alito d’aria – Mi sembrava di entrare meglio nella sua vita, più in profondo…

Poi qualche altro ricordo, quello dei figli, che vorrebbe rivedere, qualche altro strazio…ed infine il cerchio di quella giornata in manicomio si chiude. Ida torna ad inveire contro Anna, torna a pregarla e ad insultarla per avere il conforto di un dialogo, di qualche parola amica. Nulla. Siamo in un momento di assoluta disperazione. Il viso di Paola, la sua voce ed i suoi gesti esprimono, senza eccesso retorico ma con immensa credibilità, tutto il dolore di una vita ormai arida ed inutile: Anna, perché questa punizione? Perché questo destino infame, che mi ha strappato via da tutto, dai figli, dal marito… E poi: Dove s’è perduta la mia anima di donna, che ora non è più niente, nemanco una libellula, nemanco un raspar di gazza… E allora non resta che sprofondare nel buio e Paola, o meglio Ida, con una voce ormai stimbrata e priva di vita, vuole fuggirla ’Sta luse smesurata, che non scolora mai, mi brucia, mi infetta, mi squarta in total macelleria… e si corica sul letto mentre tutto torna a calare nella penombra. Solo allora entra Anna, la ricopre del suo lenzuolo, non parla, non sorride. Coprirne il corpo tremante e disgraziato è l’unico gesto di pietà…

E tutto è compiuto. Nella sala c’è un silenzio totale, emozionato, che dura qualche istante prima che partano dei meritatissimi e scroscianti applausi, che si protrarranno, e giustamente, per un bel po’. Guardo Chiara, un’amica di Paola, mia vicina di posto, in prima fila. Siamo entrambi parecchio commossi, ed è un po’ difficile uscire in fretta dalla singolare atmosfera di assoluta disperazione, alla quale ci ha condotti la recitazione di Paola…ma siamo anche ammirati. Ammirati per tutto quanto. E la mia sincera ammirazione, il mio ringraziamento per tutto quanto, accaduto a Spigno sabato scorso, va sì alla straordinaria interpretazione di Paola, ma anche, e molto, all’ideazione scenica e registica di Silvia Perosino, la ieratica infermiera, che ha ripreso la regia della compianta Mariangela Santi, e va a ReteTeatri, che ha fortemente contribuito a riallestire questo bellissimo spettacolo. E, last but not least, un immenso ringraziamento a chi l’ha scritto, questo notevole pezzo teatrale, pubblicato nel 2004: Osvaldo Guerrieri.

E io spero di non avervi annoiati. Ho cercato di farvi ripercorrere con me l’emozione di una indimenticabile pièce teatrale, che mi ha davvero molto convinto e coinvolto. Guidando verso casa, ché da Spigno ci va un po’, ripensavo a Ida e alla sua perduta felicità, alla sua estrema solitudine, in un mondo vuoto di significato. A quel poco miele dei ricordi di cui si alimentava…fin che sino il ricordo si consuma / e tutto è come se non fosse stato.

 

 

 

Pier Carlo Guglielmero:
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