Nell’aria un grido risuonò: è finita la pacchia!

Questa improvvida battuta è uscita dalla bocca della nostra premier qualche tempo fa ed era indirizzata alla dirigenza europea, per dire che l’Italia non sarebbe più stata vittima dei soprusi della Commissione di Bruxelles che, secondo molti, aveva approfittato della debolezza dei nostri governi per imporre norme ingiuste a nostro danno. Ma la presunta difesa degli interessi nazionali a vantaggio o nei confronti di chi fosse indirizzata non era stata ben chiarita, assunta se non altro come generica accusa ai cosiddetti “poteri forti”.

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Prima di parlarne, vorrei cercare di capire il significato vero della parola pacchia nella lingua italiana.

Il dizionario ci spiega che la parola, di lontane origini dialettali del Nord Italia, viene da pacchiare, cioè mangiare con ingordigia ed anche spesso a sbaffo, da parte di chi è abituato a condurre una vita facile e spensierata. Il veneto paciar vuol dire muovere le mascelle. Il milanese, come pure l’alessandrino pacià, vuol dire mangiare abbondantemente e con voracità. Infine il modo di dire “è finita la pacchia” indica la cessazione, provocata da accadimenti negativi e non voluti, di una condizione di vita favorevole, senza problemi di ordine materiale.

Questa sarebbe stata quindi la condizione del popolo italiano prima degli ultimi accadimenti, vale a dire le due crisi finanziarie del nuovo millennio, lo scoppio della pandemia, la guerra (pardon l’operazione speciale) messa in atto dalla Russia di Putin in Ucraina. Su alcune cose i governi italiani non hanno possibilità di intervento, se non per approfittarne da parte di qualcuno a fini di propaganda elettorale, oppure per animare i salotti televisivi per mesi e per anni con le solite facce tipo Travaglio, Giordano, Sallustri, Senaldi, Scanzi, Padellaro, Cacciari, Severgnini, Belpietro, eccetera eccetera, ai quali si è aggiunta recentemente anche la nostra brava alessandrina Brunella Bolloli. Davanti a tali monumentali campioni della carta stampata, io dovrei avere gena di parlare e dovrei stare zitto per timore di fare qualche buru (mi perdonerete il vizio ricorrente dello sconfinamento nel dialetto, ma è come una forma di autodifesa che hanno coloro che posseggono poca dimestichezza con la letteratura autorevole). Essendo però ampiamente ormai aggregato a quelli che sono incamminati loro malgrado sul viale del tramonto, appena sento parlare di certi argomenti attinenti certe problematiche riguardanti la sanità e l’assistenza agli anziani, non resisto alla voglia di intervenire. Di sanità pubblica si parla ormai solamente per segnalarne le macroscopiche carenze che si sommano in tutte le regioni d’Italia, dopo l’arrivo della pandemia e dopo le riforme attuate al ribasso. Come in tutto il Piemonte, anche nella nostra città si lamenta il caos frequente nel servizio di Pronto soccorso, la mancanza di copertura medica sul territorio da parte di quelli che dovrebbero essere i medici di famiglia, gli intollerabili ritardi per le prenotazione di molti interventi, come ad esempio si verifica nel reparto di Oculistica, dove ho accertato che per una banale operazione di cataratta ad un occhio occorrono anni (2 0 3 addirittura). Ormai molti esami urgenti o vengono rimandati da chi non può permettersi di pagare o vengono dirottati verso i privati dietro congruo pagamento di danaro, in parte anche in nero. La sensazione è che la sanità pubblica gratuita (a parte il pagamento dei ticket) quella che fu una delle conquiste principali del periodo postbellico in Italia, sia ormai un sogno superato. Dobbiamo pertanto aspettarci da un lato una gioventù rassegnata al peggio e dall’altro lato un probabile sensibile calo della durata della vita media, che giova ricordarlo era arrivata a superare gli ottantadue anni a fronte di un misero cinquantotto come in certi paesi tipo la grande Russia. Soprattutto guardando al destino di sempre più numerose residenze sanitarie assistite, un tempo chiamati ricoveri per anziani, leggo infatti dalle cronache recenti: “Dopo oltre otto anni di gestione commissariale, l’Ipab Santa Croce di San Salvatore Monferrato ha chiuso i battenti al termine di una gestione per lo meno discutibile a partire dall’ultimo bilancio in pareggio approvato nel 2011 salvo poi dichiarare un incomprensibile dissesto (se prima approvi un preconsuntivo in pari e poi chiedi il dissesto sei da ricoverare alla neurodeliri). La casa di riposo Santa Croce fondata nel 1561 è vuota in quanto l’ultimo ospite ha fatto le valigie l’altro ieri: da cento ospiti che erano un tempo, l’Ipab era arrivata a 50 negli anni più recenti, oggi trasferiti nelle strutture di Occimiano, Frassineto, Ottiglio.” E poi ancora a proposito della Casa di Riposo di Bosco Marengo: “Dal primo settembre dovrà dire addio alla sua storica casa di riposo: la Santi Antonio e Caterina, fondata nel 1300, per secoli e fino a pochi decenni or sono, è stata l’ospedale del paese e poi il luogo dove veniva ospitati gli anziani del paese. È l’epilogo annunciato di una gestione che si è rivelata sempre più difficile a causa dei debiti accumulati in passato. Lunedì scorso i lavoratori e i sindacati sono stati informati dalla cooperativa sociale «Il Gabbiano», gestore della struttura, che dal primo settembre la casa di riposo chiuderà i battenti.” Ma questo è ancora poco. Infatti, mentre aumentano le necessità di collocamento delle persona anziane, anche per il venir meno della funzione ammortizzatrice della famiglia di un tempo, anche grosse ed importanti strutture, come quella di Asti, vengono chiuse dall’oggi al domani. Asti aveva 300 posti letto ed un numero di dipendenti pari a 120 unità. Una tragedia, mentre la Regione Piemonte da Torino sembra in catalessi, impegnata a portare a termine gli ultimi lavori del grattacielo sede dei suoi prestigiosi uffici.

Dalla pagina di Cronica di Torino del Corriere leggo con sgomento che il Piemonte è senza medicinali di una certa fascia importante per la salute di molti. Si tratta di più di una decina di prodotti destinati soprattutto alla sopravvivenza di malati gravi o anche cronici. Viene indicato un impressionante elenco di termini tecnici che io tralascio di scrivere. Nelle farmacie c’è il “fai da te” e si deve rimediare alla mancanza degli originali fino a ieri distribuiti dalle case farmaceutiche con una specie di ritorno al passato, obbligati a riscoprire il confezionamento manuale. Infatti mancherebbero anche i contenitori, i blister delle pasticche e perfino la carta per le confezioni. Nella mia mente sono riandato al passato del periodo dell’immediato dopoguerra, quando il farmacista del paese, il dott. Celio Bertone, lavorava con davanti il bilancino di precisione e distribuiva ai clienti il pacchettino della busta di carta ripiegata. Mi sono anche ricordato, non senza un brivido sulla pelle, di quello che avevo visto in Argentina, quando siamo andati all’inaugurazione di un reparto dell’Ospedale dei Bambini di Rosario di Santa Fè. Con quella grande ed operosa città la nostra Alessandria è gemellata, fin dal tempo del Commissario prefettizio Macrì che aveva preso il posto dei nostri sindaci indagati, per cui, venuti a conoscenza delle difficoltà nella loro gestione della sanità pubblica, ci eravamo dati da fare per dare un aiuto nella ristrutturazione di un reparto di quell’ospedale dei bambini, poi chiamato “Città di Alessandria”. Oltre alla Cassa di Risparmio che aveva fatto una generosa donazione, anche il nostro ospedale Cesare Arrigo aveva partecipato, regalando tutta una serie di attrezzature che erano state imbarcate e poi consegnate prima del nostro arrivo. Io ero stato invitato dal mio Comune ad unirmi al viaggio per un motivo abbastanza banale: aveva ottenuto molto successo, specie in Argentina, il mio almanacco di quell’anno 2004 che trattava della storia dell’emigrazione dei castelceriolesi verso quel lontano paese. Avevo tracciato tutta una serie di storie personali, aiutato dalla testimonianza di molte persone, oltre che dai documenti trovati in Archivio di Stato ed in piccola parte anche in Confraternita di San Rocco a Castelceriolo, sodalizio pio che aveva a suo tempo anche aiutato qualcuno ad affrontare le spese di viaggio sui piroscafi del tempo.

Entrati nelle corsie di quell’ospedale di Rosario, un tempo una eccellenza come si poteva constatare dalle costruzioni delle varie palazzine dei reparti, anni prima eleganti e simili al nostro ospedale Patria, ci rendemmo conto della precarietà della situazione, con letti e mobili sverniciati, collegamenti elettrici non a norma e del tutto precari, ma ciò che ci stupì veramente fu un reparto del cortile, attrezzato come laboratorio, dove una serie di medici era all’opera, con dei bilancini da farmacista, per confezionare le buste da distribuire per la cura dei malati ricoverati. Chiedemmo come mai si fosse adottata una soluzione così datata e ci venne risposto che per la grave crisi finanziaria in cui si dibatteva la nazione, i fornitori americani dei medicinali che per lo più venivano importati dal Nord avevano sospeso le consegne. La città di Rosario, pur essendo molto più grande ed abitata, non era la capitale della Provincia, ma lo era Santa Fè, dove risiedeva il governatore, il quale privilegiava la sua città, lasciando solo le briciole a Rosario, governata da un sindaco dal nome tedesco (mi pare di ricordare che fosse Dietch), il quale per la sopravvivenza dei suoi aveva creato una specie di sanità municipale, obbligata al “fai da te”. Fummo ricevuti con tutti gli onori dal sindaco, che colà chiamano” intendiente” e dalla sua giunta che non finiva di ringraziarci per l’aiuto e constatammo con un certo orgoglio la bellezza e la funzionalità del nuovo reparto appena inaugurato, recante in alto la scritta: “Città di Alessandria”.

Tornando al presente devo ammettere che una certa preoccupazione mi segue, pensando a quello che ho visto in Argentina, pensando alla crisi finanziaria che da troppo tempo ci caratterizza, almeno in parte simile alla loro, dovuta alla stessa faciloneria politica. È ridicolo continuare a prendersela con fantomatici “poteri forti” in maggioranza stranieri, e dare la colpa al finanziere anti-sovranista Soros o altri simili a lui, mentre dovremmo guardarci dai nostri vicini di regione che pieni di soldi non perdono il vizio di impegnarsi in operazioni di falsi in bilancio, impuniti e sfacciati. Per la crisi dei carburanti non abbiamo trovato di meglio che parlare di speculazione, come ha detto con aria truce un ministro famoso, per poi ridurci ad incolpare solo i poveri benzinai, minacciandoli di pene severe (chiusura degli impianti per decine di giorni) se per caso non tengono aggiornato il cartello con la segnalazione dei prezzi minimi e di quelli applicati alla pompa. Non si risolvono i problemi con dei semplici cartelli. Per fare questo era capace anche un babaciu qualunque senza riunire alcun Consiglio di Ministri per partorire un decreto urgente.

Luigi Timo – Castelceriolo

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