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Quel che conta è la propaganda: tutto il resto è naia

Il sasso è stato lanciato e questo basta già per sollevare polemiche feroci sulla necessità di utilizzare la propaganda per raccogliere qualche consenso trasversale.

A proposito di propaganda, penso sia opportuno fare qualche passo indietro per capire cosa potesse essere in tempo di inizio guerra (1941) l’esigenza di tranquillizzare le coscienze dei ceti popolari, quelli destinati a sopportare sulla loro schiena gli orrori di una guerra scatenata non si sa bene in omaggio a quali interessi. La canzone popolare diceva.

“Cantando va alla guerra la più bella gioventù. E l’offensiva sferra per spezzar la schiavitù. Sono forti i battaglioni, anelanti di marciar. In tutte le situazioni corre la gente a salutar. Ciao, ciao bel soldatin, và, và col tuo destin… Combatti fiero e torna vincitor, la tua mamma ti stringerà sul cuor. Và và bel soldatin  lontan oltre il confin… Quando sarai sul campo dell’onor, dovunque arrivi tu pianta il Tricolor. Mentre il cannone romberà, so che il tuo cuor non tremerà. Chi muore per la Patria mai morirà.

Ciao, ciao bel soldatin! Ciao ciao bel morettin! Ti aspetteremo per salutarti ancor. Bel soldatin ritorna vincitor.”

All’epoca non pochi ci avevano creduto, salvo poi cambiare idea quando si resero conto della mala parata e molti si affrettarono alla fine del conflitto ad iscriversi nel campo avversario per ricavarne qualcosa, se non altro un affrettato lavaggio della coscienza.

Che l’italiano in divisa non sia molto credibile non dipende dalla maldicenza dei nostri vicini ma, purtroppo, dallo svolgimento della storia che ci ha insegnato che anche i migliori esempi di eroismo sono avvenuti nei frangenti in cui l’italiano ha dovuto difendersi e quasi mai quando è stato chiamato ad attaccare gli altri. Di fandonie belliciste ne aveva già avuto abbastanza, fin dai lontani tempi e in fondo se si fosse trattato di impero avrebbe guardato più volentieri la macchina per tirare la pasta sfoglia fatta in casa, che era appunto con la marca “Impero” stampata sopra.

La vita militare, nella vulgata popolare, non a caso è stata chiamata “naia” un termine gergale che, stando all’interpretazione degli studiosi del linguaggio, non ha derivazione meridionale come abbiamo talvolta pensato, ma probabilmente veneta, dal vocabolo che vuol dire stirpe, razza nel significato di gerarchia. Essere sotto la naia voleva dire, se pensiamo alle truppe impegnate nella Prima guerra mondiale in territorio veneto, esplicare un servizio oltremodo disagevole, con fatiche estreme anche quando non erano indispensabili, disciplina feroce e spesso insulsa, fame, freddo, sporcizia, lontananza da casa, eccetera.

Coloro che hanno fatto il servizio militare, come me, in tempo di pace hanno potuto soltanto immaginare cosa fosse stato lo “stare sotto la naia” per anni interi e di seguito, nel caso avessero dovuto obbedire agli ordini di bellimbusti in divisa che non sapevano fare altro che ripetere ordini gridando e gesticolando come burattini. Ma d’altronde se avessimo potuto metterlo ai voti, noi che abbiamo nel 1964 servito la Patria nel corpo degli alpini, quali sarebbero stati gli ordini a cui avremmo obbedito con cieca fiducia?

Come in realtà facemmo una volta per gioco mentre ci trovavamo seduti nel locale dello spaccio della caserma, lontani dall’occhio dei superiori, probabilmente sarebbero venute a galla certe verità. Nella mia Compagnia soltanto un capitano, uomo esperto ed in età di padre di famiglia, avrebbe incontrato cieca fiducia presso i suoi soldati. Tutti gli altri graduati del Battaglione, senza distinzione di gradi, sarebbero stati, secondo noi, degni di essere presi spesso a calci in culo per la loro boriosa spocchia.

Inoltre, più erano carenti in istruzione di base, dai caporali ai sottufficiali, più credevano di avere il diritto di abusare del loro grado, inventando talvolta anche competizioni assurde che inevitabilmente sfociavano in forme di nonnismo con l’intento di sottomettere la personalità altrui. Pareva che fossero in cerca di una rivincita per la loro manifesta inferiorità nei confronti di qualcuno che dava loro ombra.

Mi ricordo ancora adesso le angherie alle quali fu sottoposto un povero ragazzo valdese, dall’aria esile e con gli occhialini chiari con la stanghetta, colpevole solo di voler pregare inginocchiato sulla branda prima del sonno serale. Fu salvato dalla sua grande abilità nel suonare la tromba a coulisse, come ho già avuto modo di raccontare in un mio precedente scritto.

Alla fine del discorso, meglio lasciar perdere, perché fra il livello medio del soldato italiano e quello medio del milite tedesco o russo scorre un fosso troppo profondo. La guerra la facciano quelli in cui ci credono senza discernimento, visto che i nostri caporali sanno distinguersi più che per la loro preparazione bellica per l’abilità nel dare il “battesimo” alle reclute (che poi non era altro che il timbro sulle natiche fatto in serie a gente che stava appollaiata sullo sgabello coi pantaloni abbassati)

La notizia di questi giorni è che il Presidente del Senato ha proposto la reintroduzione del servizio militare per un breve periodo ma per tutti i giovani italiani. Secondo lui, e secondo il solito Salvini che si è affrettato a cointestarsi la proposta, l’impegno dovrebbe servire per migliorare lo spirito della gioventù, insegnando e stimolando la volontà di partecipazione civica, la responsabilizzazione dei cittadini del futuro e via di seguito.

Dal sito internet dell’Associazione Finanzieri (del loro sindacato di categoria), leggo che il presidente dei senatori al servizio militare era un soldato scadente, congedato in anticipo. Avrebbe detto di aver fatto il parà nella Folgore, ma pare che non sia vero. Comunque l’aspetto fisico non lo premia di sicuro nel garantirne le credenziali.

Quell’altro personaggio, il soldato di leva lo ha fatto tre mesi al CAR di Casale Monferrato e poi imboscato in caserme in zone centrali di Milano, praticamente a casa. Il solito eroico curriculum di tutti quelli che si vantano di essere dei veri patrioti.

A conclusione del discorso, voglio riportare qui di seguito alcune considerazioni espresse dal famoso giornalista Vittorio Feltri, che di peli sulla lingua non ne porta di sicuro.

In merito alla proposta di reintroduzione della leva militare ha dichiarato:

“oggi mi chiedo a cosa sia servita la mia permanenza nei Granatieri di Sardegna, quindici mesi lordi senza fare nulla di militare. E oggi, a distanza di oltre 50 anni, sento dire da Salvini che sarebbe opportuno ripristinare la leva obbligatoria. Mi sembra una tale scemenza da non meritare di essere presa in considerazione neanche come scherzo.”

Dei suoi personali ricordi della naia scrive:

“gli ufficiali erano arroganti e sgarbati, i sottufficiali, buzzurri, erano ancora peggio: non parlavano, non davano ordini, berciavano. Noi ultimi ospiti (da poco arrivati) non capivamo come dovessimo comportarci, venivamo sbattuti di qua e di là come cenci. Strilli, parolacce, intimidazioni…”

E se ciò poteva accadere in un corpo di élite come i granatieri di Sardegna (il corpo favorito dalla nostra ex casa reale, nonché rappresentativo anche nella successiva repubblica), figuriamoci a cosa si sarebbero dovute piegare le reclute della famigerata “fanteria” declassate al grado di “burba” puzzolente. Ricordate la canzonaccia che diceva: “senti che puzza c’è nella via? Sarà passata la fanteria?”. Noi alpini, che facevamo pure noi a tutti gli effetti parte dell’Arma di fanteria, l’avevamo modificata così: “Senti che puzza c’è nella via? Sarà passata l’artiglieria (quella di montagna che era di stanza a Savigliano e aveva ancora i muli in dotazione). I suoi membri che facevano comunque parte del medesimo Reggimento Alpini della Brigata Cuneense, si portavano effettivamente appresso un odore di stalla inconfondibile.

Poiché fra noi alpini non si usava il termine gergale “Burba” ma invece “Cappella” (famosa la canzonetta che diceva. “cappella sparati se hai dei mesi –nel senso di servizio ancora da fare – noi siam borghesi e congedà), mi sono preso il mal di pancia di voler capire il significato nascosto di tali termini dialettali ben noti a chi il soldato l’ha fatto davvero.

“Burba” sarebbe in dialetto lombardo il secchio di ferro dei muratori, usato per la calcina e “Cappella” semplicemente qualcosa di molto simile perché quando il secchio è rovesciato sembra proprio un cappello a tesa larga abbandonato per terra.

Non si fa mai troppo tardi per imparare.

Tuttavia concentriamoci su qualcosa di più proiettato al futuro e mandiamo a dire a quei due fenomeni che amano vedere dei giovanotti in divisa, di lasciar perdere, perché perfino uno che non è di sicuro né comunista né pacifista come Vittorio Feltri ha detto chiaro e tondo che anche questa è un’altra “cagata pazzesca” come quella famosa dal ragionier Fantozzi.

Plotone! attenti! – Destr- riga! Allineati e coperti! Avanti marc!

Un due, un due!

 

   Luigi Timo – Castelceriolo

Categories: Cronaca
Redazione Alessandria24.com:
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