Notizie dall’Oltre Bormida

Talvolta mi sorprendo a pensare all’inverno, spesso in senso generale, senza precisi riferimenti.
Sarà perché, avanzando con l’età, la stagione della mia vita, purtroppo, si allontana ormai anche
dall’autunno, la stagione dei raccolti, quelli che meritano di essere custoditi in cantina, come il vino
frutto della vite, o nel congelatore per avere una specie di scorta che, secondo i concetti moderni,
sarebbe del tutto inutile, vista l’abbondanza che riempie ogni giorno i piani dei supermercati che
frequentiamo. Diamo infatti per scontato che i beni di consumo giornaliero debbano essere
oltremodo abbondanti per le scelte dei nostri acquisti, sicuri che comunque dal nostro mondo
agricolo e industriale il flusso delle merci continuerà ad essere inarrestabile e, qualora dovessero
esserci carenze dovute agli effetti stagionali, qualcuno da altre parti del mondo si impegnerà di più
per soddisfare la nostra fame. Infatti, quando parliamo di fame nel mondo, chissà perché parliamo
di tanti paesi, anche a poche ore di volo da noi, ma escludiamo completamente il nostro.
Qui da noi la fame per vederla bisogna impegnarsi a scoprirla frequentando certi ambienti come la
mensa dei frati o quella della Caritas, dove anche noi di Castelceriolo, attraverso alcuni gruppi
parrocchiali, saltuariamente facciamo la nostra parte di servizio e dove periodicamente qualche
isolato come me si compiace di portare qualcosa da distribuire. In questi giorni, ad esempio, sono
stato impegnato a trasportare grossi quantitativi (più di 500 alla volta) di uova di gallina offerti da
una generosa signora che prima di conoscere me aveva conosciuto Luciana, a vantaggio di una
organizzazione della quale fanno parte i nostri amici frati di Spinetta, ma non solo, perché
l’eccedenza del carico l’ho consegnata agli amici scout adulti che fanno più o meno lo stesso
servizio presso la parrocchia cittadina di Santo Stefano. Questo lo dico non per mettermi in luce,
ma solo per segnalare, a chi lo volesse, quali punti di riferimento trovare per dare un semplice
modesto aiuto.
Guardando la televisione si rimane atterriti dalle previsioni riguardo all’inverno che è alle porte. Si
parla continuamente di “rottamazione delle bollette”, di cancellazione delle tasse, di ristori e di
rimborsi per intere categorie di cittadini, indipendentemente dai casi singoli. Il sostegno al reddito
che è venuto a mancare è giustamente additato come un importante aiuto per famiglie e piccole
aziende, senza guardare troppo per il sottile, ad esempio, se le mitiche “partite Iva” italiane di cui si
parla tanto siano effettivamente contribuenti netti di tale imposta, o se invece siano totalmente o
parzialmente agnostici al riguardo. Guardate il caso dei gestori delle spiagge, alcuni dei quali da
decenni o da generazioni continuano a incassare soldi pagando canoni irrisori all’Erario dello Stato
proprietario degli arenili. Abbiamo capito il giochetto di alcuni clan camorristici laziali e campani,
che titolari della licenza, subaffittavano in nero il diritto di sfruttamento della spiaggia a dei
poveretti, taglieggiandoli poi in varie maniere. Alcune forze politiche locali si sono opposte alla
riforma, voluta peraltro dalle autorità europee, perché esisterebbe il pericolo, con il sistema delle
aste aperte, di cessione a stranieri delle nostre amate spiagge, che verrebbero sfruttate non più
nell’interesse per così dire “patriottico”. Volete che vi dica cosa penso? Che del tricolore non me ne
importa più di tanto, specie dopo che ho visto cosa è costata finora la difesa della nostra
compagnia aerea di bandiera che già una ventina di anni fa pareva destinata a finire nella mani di
Air France-KLM (franco olandese) ma per tutt’altra moneta rispetto ad oggi e senza i salassi
multipli di personale e di patrimonio sia di denaro pubblico che di rotte internazionali
irrimediabilmente perdute.
Se dobbiamo tutti insieme stringere i denti per superare il nero periodo che si affaccia davanti a noi
nel prossimo inverno (e non solo per i costi energetici delle nostre aziende, che peraltro trovavano
molto più comodo rifornirsi di gas russo a basso prezzo, piuttosto che coprire i tetti dei loro enormi
capannoni industriali o anche agricoli di strumenti adatti alle cosiddette energie rinnovabili) e se gli
stessi sostegni nella stessa misura che adesso invocano per sopravvivere in qualche maniera li
avessero chiesti non solo con fini speculativi, ma per prepararsi alla futuribile transizione votata
anni fa dai governi di quasi tutta l’Europa, non sarebbe stato molto più preveggente? Si sapeva
forse anche allora dove era il rischio di mettere i piedi, ma si preferiva ignorare. Adesso si blatera
di cancellare il referendum anti nucleare e di costruire nuove centrali, ma, a parte che non
arriveremmo in tempo per parare il colpo che ci è stato inferto, specie se pretendiamo di parlare di
atomo pulito quando dopo trent’anni non sappiamo ancora dove scaricare le scorie tossiche che ci
sono rimaste da gestire dopo la chiusura delle vecchie centrali, ma vorrei che rispondeste a questa
mia semplice domanda: chi ci garantirà che l’energia nucleare “made in Italy” eventualmente

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prodotta in casa nostra costerà meno di quella francese importata? Non vorrei che succedesse ciò
che è successo con il latte, che adesso beviamo o i formaggi che mangiamo sotto il marchio
Parmalat Italia!
Lo sapete che, oltre a Parmalat, il gruppo francese Lactalis raggruppa i più importanti marchi
italiani, come Galbani, Vallelata, Invernizzi, Cademartori, Locatelli, eccetera?
Ci vantiamo della produzione locale del nostro latte della Centrale di Alessandria e Asti, ma
sappiamo che i soci conferenti, che un tempo erano alcune centinaia, sono ormai rimasti quelli che
si contano sulle dita di una mano? E di tracce astigiane non ne esistono più da tanto tempo?
Se vi piace la propaganda fate pure, ma io la vedo sotto un altro aspetto la questione: quello della
serietà e dell’onestà. Abbiate quindi pazienza se ho demolito il vostro sogno tricolore, che poi in
fondo è solo nazionalismo da stadio, ma purtroppo c’è stata una enorme differenza fra certi
capitani d’industria italiani e quelli francesi. Vi ricordate il patron di Parmalat, quel Tanzi Callisto
finito in prigione e morto poi di recente? Era uno che si era specializzato in puff finanziari plurimi,
senza confini nazionali e continentali (si era allargato anche in Sudamerica), mentre se leggete il
curriculum dei suoi omologhi francesi, peraltro lontani dal chiasso delle televisioni, potete leggere
che Lactalis è una multinazionale che opera nel settore dell’industria lattiero casearia con sede in
Francia (non alle Bermude o a Montecarlo) ed è controllata dalla famiglia Besnier. Secondo la
rivista finanziaria Forbes nella classifica degli uomini più ricchi del mondo Emmanuel Besnier si
posiziona molto bene, con un patrimonio stimato in circa 10 miliardi di dollari. Noi italiani, a parte
qualche rara mosca bianca, come Ferrero, Del Vecchio e pochi altri, abbiamo tutt’altra fauna in
famiglie del mondo industriale. I tempi gloriosi di gente come Olivetti, Mattei, Borghi, Bonomi
Bolchini, Rizzoli, Bianchi, Zanussi e tanti altri sorti nell’immediato dopoguerra, sono
irrimediabilmente passati.
Ma, a proposito di quei tempi gloriosi, vorrei capire quale fu il substrato sociale che rese possibile
quella stagione. Venivamo da una guerra che aveva azzerato non solo le nostre capacità
industriali ma anche la stessa nostra moneta (la lira non c’era più, valeva zero), la gente faceva la
fame, ma nel senso vero della parola. Ricordo i problemi della famiglia di mio nonno in cui vivevo
in paese, ma soprattutto i problemi di alcuni nostri vicini di casa. C’era una donna che aveva
quattro figli ed il cui marito era appena tornato dalla prigionia di guerra e faceva solo piccoli lavori
precari, come succede adesso anche a molti italiani, specialmente giovani al primo impiego. Costei
era molto volenterosa ed appena poteva dava una mano nei lavori dei campi. Qualche volta alla
sera si presentava alla finestra di mia nonna Annetta, dopo che era andata nei rivoni delle cave
della fornace Bolloli a raccogliere erbe commestibili come i pregiati Vertìis o i Denc ‘d can o
Cunsavèl o Madonn, e simili e chiedeva con un bel sorriso: “Nèta, a jiv meija tråi o quater ov per fa
na bèla fartà per is masnaj ch’im specian?”- Traduzione dal dialetto: “Annetta, avete mica tre o
quattro uova da regalarmi per fare una bella frittata per quei quattro ragazzi che mi aspettano? La
nonna non si tirava mai indietro ed anzi vi aggiungeva anche magari un filone di pane avanzato ed
un quartino di latte della nostra mucca, che era considerata un fenomeno perché produceva fino a
ben 18 litri al giorno di buon latte. Pensate che adesso una mucca del genere verrebbe
immediatamente ammazzata ed eliminata dalla stalla, se non producesse almeno quasi il triplo
della nostra Mora, una vacca tutta nera e con lo sguardo languido che mi guardava quando le
accarezzavo le orecchie. Tempi eroici, quando gli operai andavano a lavorare in bicicletta o con il
Motom, un ciclomotore a quattro tempi che non consumava che pochissima benzina. Gli inverni di
allora erano una mazzata di freddo per tutti, sia per i più benestanti che avevano la stufa a legna
con il forno smaltato, sia per i poveri salariati che si scaldavano davanti al camino solo con legna di
ramaglie di gelso o tralci di vigna (detti in dialetto el puass) e scappavano nella stalla se volevano
sentire un poco di calore. Si dormiva con il “prete” e la scaldina con la brace nel letto, sotto una
montagna di coperte o la cusra ‘d pån-na d’oca o l’åmbutì di lana grezza cucita a grossi quadri. Al
mattino, dopo che c’era stata la grande nevicata, si cercava di prendere la prima corriera per
Alessandria, nella speranza che arrivasse a passare da Castelceriolo senza finire nel fosso della
famigerata “curva della Costantina”, un passaggio sempre problematico per le corriere che non
avevano gomme antineve ed il ghiaccio che si formava immediatamente dopo i primi transiti senza
il sale antighiaccio, al passaggio della lesa, lo spartineve di allora. Si viveva con la tenacia
necessaria per superare tutte le difficoltà della stagione invernale, con pochissimi soldi in tasca e
solo con la speranza di veder spuntare di nuovo il sole della primavera. Quale può essere il rischio
di oggi? Quello di attribuire al destino del nostro tempo un effetto rassegnazione, come fossimo avviati verso la fine di un mondo, come dice qualcuno che parla di influssi maligni diabolici rivolti a
punire il genere umano abbandonato al suo destino per volere divino, come successe verso la fine
del primo Millennio, quando si credeva che la storia non potesse proseguire (Mille e non più Mille
ricordate?). Ci vollero allora cento anni per verificare che non era vero e riprendere la marcia. Luigi Timo – Castelceriolo

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