Certe cose non è giusto che finiscano dimenticate

In questi giorni di attesa della pioggia, possibilmente senza la grandine che abbiamo visto ieri in
Lombardia, mi trovo costretto per tirare il fiato e ripararmi dal caldo soffocante, a rispolverare dei
ricordi personali, proprio come fanno i vecchi alla fine del loro percorso vitale. È noto infatti che,
mentre la memoria dell’attualità recente viene meno, nelle persone anziane la memoria del lontano
passato si risveglia e si spalanca più di prima.
Non perché io sia più interessato a parlare di Milano che della mia regione, ma le mie esperienze
di gioventù coinvolgono più frequentemente Milano piuttosto che Torino, dove a suo tempo io avrei
potuto anche fermarmi a lavorare, se avessi voluto completare il concorso per essere assunto al
San Paolo di Torino.
Infatti, nell’ottobre 1961, poco dopo la maturità, dopo aver superato la prova scritta degli esami,
rimasi per tre mesi in attesa di essere convocato per gli orali, ma nel frattempo ero già partito per
Milano, dove la Banca del Monte (ora Regionale Europea) mi aveva convocato con urgenza per
assumermi, senza badare al fatto che non fossi militesente. In quel tempo a Milano c’era una forte
carenza di personale nelle banche, che non erano state preparate ad affrontare l’incremento del
lavoro portato dall’imponente sviluppo del cosiddetto “miracolo economico” incombente. Essendo
già inserito col lavoro a Milano, ovviamente rinunciai a dare gli orali a Torino e tutto sommato andò
bene così perché le varie esperienze milanesi mi furono d’ aiuto nella vita.
Torino mi è poi sembrata col tempo una città più chiusa e ripiegata sulla galassia Agnelli e dintorni,
mentre Milano mi sembrava una città dagli orizzonti più aperti e moderni.
Qualcuno mi chiederà: ma allora, come mai dopo meno di un decennio hai preferito rientrare in un
buco come Alessandria, all’ombra di una C.R. AL dal perimetro poco più ampio di un cortile?
La colpa di tutto fu il Sessantotto con il marasma che produsse, cioè il terrorismo, le interruzioni dei
pubblici servizi, le cariche quotidiane della polizia che mi obbligavano ad affrontare a piedi percorsi
di ore per il rientro a casa dal centro della città, ove lavoravo. In poche parole: mi ero stufato.
Succede però che non appena mi capita di leggere qualcosa che riguarda la Milano di quegli anni,
mi vengono alla mente cose interessanti che coinvolgono fatti e persone che hanno segnato i
contorni caratteristici di quel tempo.
In una intera pagina del Corriere di oggi, 28 luglio 2022, vengono riportate le confessioni di una
grande signora della borghesia milanese, Ilaria Borletti Buitoni, una donna di 67 anni, ereditiera di
una dinastia che nel secolo Novecento controllava marchi industriali e commerciali del massimo
livello.
Nello spazio dei tanti suoi parenti, una figura che emerse in larga parte fin dall’inizio del secolo fu
quella del nonno Borletti, Senatore di nome e di fatto, che portò al successo nomi di marchi come
Rinascente, Upim, Filature e tessiture riunite, Filatura lombarda, Officine Fratelli Borletti, un impero
diffuso su vari fronti che da Milano si allargava all’Italia intera. Senatore Borletti era un nome molto
prestigioso a Milano ancora al tempo in cui io avevo lavorato in banca. Negli anni successivi i suoi
molti eredi preferirono lasciare ad altri l’onere della conduzione dell’impero, ritirandosi e cedendo la
maggioranza delle azioni ai nuovi magnati dell’industria e della finanza, fra i quali i soliti Agnelli e
De Benedetti.
La signora Borletti aveva così fatto tesoro di ciò che le aveva detto Enrico Cuccia, il diabolico capo
di Mediobanca, quando le disse: “i soldi è più facile perderli che farli”.
Ma sul suo nonno senatore avrei da aggiungere un mio ricordo personale, del tempo in cui
frequentavo Milano nella banca che stava a metà di via Monte di Pietà, proprio di fianco alla più
grande e maestosa sede centrale della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde (loro il
plurale di provincia lo scrivono con la i, un privilegio che possono permettersi solo a Milano).
Dove lavoravo, di fianco agli sportelli della Banca del Monte, una istituzione bancaria risalente alla
fine del Quattrocento e che aveva avuto come fondatore Lodovico Sforza, detto il Moro, signore di
Milano, c’era ancora in quegli anni Sessanta pienamente funzionante il Monte di Pietà milanese,
con la fila dei clienti che andavano a portare oggetti di ogni tipo in pegno, per farsi anticipare poche
decine di migliaia di lire necessarie per tirare avanti.
All’apertura nella buona stagione, si potevano vedere signore anche distinte che tenevano
sottobraccio la pelliccia da consegnare in pegno fino alla scadenza del contratto, che normalmente
coincideva con l’arrivo dei primi freddi invernali. Ma c’erano anche clienti che portavano oggetti strani, che mettevano alla prova i periti incaricati di dare loro un valore al fine di stabilire l’entità del
finanziamento ed il successivo prezzo di riscatto.
C’era ancora in quei primi anni Sessanta la memoria della guerra mondiale ed i colleghi più anziani
raccontavano della altissima pila di bianche lenzuola di cotone e di coperte di lana portate in pegno
e mai più restituite per la scomparsa dei clienti, ancora impilate nei magazzini del Monte di Pietà.
A me facevano impressione i giovani artisti del vicino Teatro alla Scala, ma ancora di più quelli
dell’Accademia di Brera (via Brera era una traversa di via Monte di Pietà) che venivano ad offrire in
pegno strumenti musicali o artistici nei mesi autunnali, per procurarsi il denaro per le loro
necessità.
Quasi tutti confidavano nel fatto che si sarebbero dovuti privare dello strumento per poco tempo,
dato che era consuetudine per la festa di Sant’Ambrogio, il sette di dicembre di ogni anno, quando,
per antica tradizione, si dava corso al riscatto gratuito dei pegni, utilizzando i fondi lasciati da
donatori milanesi, fra i quali forse il più importante e munifico era stato il senatore Borletti.
In banca, infatti, esisteva, un conto intestato ad una fondazione che portava il nome del senatore.
Il mattino in cui si dava inizio alle operazioni di riscatto gratuito, sui marciapiedi davanti al Monte di
pietà si ammassavano file di clienti che andavano dall’angolo di via Brera fin quasi dalla parte
opposta di via dei Giardini, al punto che per smistare la folla perché non desse fastidio al
passaggio dei tram, talvolta intervenivano per regolare il flusso i vigili urbani milanesi (i ghisa come
venivano chiamati).
Giovani maschi e femmine, completata l’operazione del ritiro del pegno, sfollavano poi allegri e
contenti nei caffè della zona, ringraziando in cuor loro il senatore Borletti.
Purtroppo però c’era anche qualcuno che per Natale era costretto a rifare la fila per andare a
riportare l’oggetto e richiedere un nuovo prestito su pegno.
La fauna umana del quartiere di Brera era la più squattrinata di Milano. Lì i soldi li avevano solo le
tenutarie delle case chiuse di via Fiori Chiari, una celeberrima traversa di via Brera, oggi diventata
una delle vie più glamour della città.
Nell’intervista-confessione della grande signora milanese, si capisce la enorme differenza fra la
sua generazione e quella delle nuove signore rampanti del jet set lombardo.
Dichiara apertamente di detestare la mondanità. Di essere molto selettiva nelle amicizie e nei
ricevimenti. Dei social ha, come me, una pessima opinione, arrivando a definirli con un aggettivo
senza speranza: sono talvolta semplicemente spaventosi per l’ignoranza che diffondono.
Su alcuni personaggi dello spettacolo, che fanno opinione nei giovani di oggi, spara a zero.
A proposito di Fedez, attuale idolo giovanile, che ha dichiarato di non sapere se è esistito il regista
Giorgio Strehler, ha detto: è più grave che 14 milioni di follower lo considerino il verbo incarnato e
della sua compagna Chiara Ferragni che ha confessato di ignorare cosa sia il Memoriale della
Shoah ha detto in maniera lapidaria: “gravissimo, considerato che lei di seguaci ne ha quasi il
doppio. La logica dei like è spaventosa. Il decadimento culturale ed etico mi atterrisce”.
Ammette che tutto ciò possa anche avere riferimento con l’eclisse del sacro, trovando conforto
perciò solo in territori come l’Umbria, dove si può sentire ancora una identità spirituale molto forte.
Si capisce perché la signora Ilaria Borletti Buitoni non ami apparire sulle prime pagine dei
settimanali, ma di sicuro sarebbe una buona base di confronto con certa gioventù che conosciamo
allo sbando in tutti i sensi, anche se pieni di risorse potenziali e di denaro trovato ma non
guadagnato.
Le coperte ammucchiate e dimenticate al Monte di Pietà potrebbero insegnare ancora qualcosa ai
nostri nipoti rampanti e apparentemente disinvolti.
Io quando ebbi occasione di vederle, ormai tanti anni fa, mi sembrava ancora, nonostante il
lavaggio al quale erano state sottoposte a cura della famosa Cooperativa Lavandaie di Milano, di
sentir salire da quella traccia umana l’odore della gente che vi aveva dormito, con tutte le miserie e
gli spaventi della guerra
I nostri nipoti si devono solo augurare che le motivazioni di allora non ritornino di attualità.
Luigi Timo – Casteleceriolo

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