Quanta bellezza intorno a me, anche la pietra che si cela nel bucolico paesaggio collinare, a modo suo la esprime: la pietra duttile da cantoni che se la sfiori si sfarina lasciando tra le mani il brillio diamantino della sua remota origine marina. Così son fatte le case di Rosignano che brillano di luce, baciate dal sole e accorciano il filo del tempo che collega passato e presente. Dalla Colma, la frazione in cui mi trovo, risale una strada diritta che si inerpica nel cuore del paese. E’ un giorno di festa e nel centro storico del borgo, a pochi passi dai ruderi del castello, con mia grande sorpresa, mi ritrovo, a tu per tu, con il tradizionale appuntamento del ricamo. Sono tante le ricamatrici venute dall’Italia e dall’estero, fiere di poter mostrare, nell’incantevole paese monferrino, i loro capolavori di cucito eseguiti con l’elemento base: un filo, sia questo di lana, di seta o cotone. Mi aggiro tra i banchi curiosa; faccio domande a casaccio, lasciando trapelare la mia inettitudine al cucito, al ricamo. Le donne lo intuiscono e sorridono un po’, ma io non demordo, non mi allontano, non perdo il filo del discorso finché non mi verrà svelato l’ultimo dei segreti. Le ricamatrici esaudiscono il mio desiderio e mettono in pratica tutta la loro professionalità improvvisando, seduta stante, alcuni punti a tamburello. Intrecciano i fili che a poco a poco prendono la forma di un fiore, di un girasole, altri diventano un grappolo d’uva di sorprendente bellezza. La bellezza di un filo, la bellezza in un filo.
Il passato e le sue consolidate tradizioni sono il filo conduttore delle storie di Rosignano, ma ce n’é una che inaspettatamente si inserisce, una storia estranea, un innesto che altera la fisionomia delle storie che il paese custodisce. Alzo gli occhi dal ricamo e incontro lo sguardo di due giovani che, con un filo di voce, si offrono volontari a farmi da guida. Hanno gli occhi a mandorla e un chiaro aspetto orientale e mi domando cosa possono saperne loro di Rosignano o più in generale del Monferrato, ma accetto, più interessata alla loro storia che alla storia locale. Mentre percorriamo insieme il paese in lungo e in largo e penetriamo negli antichi “infernot” scavati nella celeberrima pietra da cantoni, mi raccontano il loro personale inferno, il travaglio che hanno vissuto e ringraziano l’associazione umanitaria di Rosignano per essersi presa cura di loro e per aver trovato nella nuova casa il loro personale paradiso.
Sono due studenti afghani, fratello e sorella, fuggiti da Kabul nell’agosto scorso quando infuriava la violenza talebana. Senza l’aiuto del fratello, che lavorava alle dipendenze di una ditta italiana con sede a Kabul, non sarebbero mai riusciti a fuggire.
A Kabul sono rimasti i genitori che sentono ancora per filo diretto. Da loro hanno appreso gli orrori della guerra, le violenze e i massacri inflitti alle donne, specie quelle di etnia hazara, l’etnia più perseguitata, la stessa a cui appartengono i due giovani.
Parlano con un filo di voce dei loro sogni infranti, ma allo stesso tempo il filo della speranza non li abbandona, quella di costruirsi un futuro qui, in Italia. Nonostante abbiano nostalgia della famiglia lontana, si ritengono fortunati più di altri che non hanno avuto lo stesso benevolo destino.
Una storia a lieto fine che corona una giornata densa di emozioni. Le ore passano e la mente vaga, si perde nei particolari, si immedesima nella tempesta delle due giovani vite.
Il cuore palpita sotto i panni, mentre insegue ancora il filo della loro triste avventura.
Immagine: Il Castello di Uviglie di Angelo Morbelli