perché non lo ammazziamo come fanno al cinema? (racconto umoristico-noir)

racconto umoristico-noir di Claudio Braggio pubblicato nel 2007 nell’antologia “Tutto il nero del Piemonte” a cura di Danilo Arona e Angelo Marenzana; la vicenda è ambientata dentro e fuori il castello di Bergamasco, in provincia di Alessandria.

“…Questa di Piemonte è un terra dove anche le cose hanno un carattere… E quindi diamo loro un sesso, così ci si mette sull’avviso circa le loro intenzioni…”

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“Ma devi leggerla proprio tutta?”

“Aspetta, aspetta, che non è male”.

“I fiumi ad esempio, noi diciamo il Belbo visto che se esce dagli argini poi ci ritorna, ma quell’altro fiume lo chiamiamo la Bormida perchè nel corso degli anni s’è divertita a cambiare spesso il suo corso facendo apparire e sparire delle anse…

“Ma non ci serve sapere tutta questa roba…”

“Fammi capire, ti prego, fammi capire”.

“Naturalmente questo vale anche per i vini, così abbiamo la Barbera e il Dolcetto…”

Paf! E scompare d’improvviso dal piccolo schermo del televisore portatile l’immagine del beota che conduce un programma d’argomenti piluccati a caso, tanto per riempire lo spazio televisivo.

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“Meglio così”.

“Uffaaa”.

Mi concentro sulla guida tra queste colline che digradano con dolcezza nella cornice d’un alba fluorescente che pare infiammare la linea dell’orizzonte…

Interrompo la lettura perché avverto il peso di due occhi che mi fissano perplessi.

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“Sarebbe a dire?”

Faccio spallucce e mi obbligo a non alzare lo sguardo.

“Sarebbe a dire che se la sceneggiatura è tutta così, allora qui c’è soltanto un lavoro di effetti speciali da fare in post-produzione”.

Annuisco muovendo leggermente il capo…

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“Anche a me pare, visto che la storia dovrebbe essere tutta in esterni, e quindi…”

Non li vedo, ma m’immagino gli occhi dilatarsi e riempirsi di minuscole venuzze rosse dagli andamenti irregolari, così sospiro ed attendo la buriana che di solito si scatena.

“E quindi che cavolo vuole, visto che noi per lavorare facciamo scene e costumi, ma questo si ostina a fare film a basso costo dove gli attori si portano i vestiti da casa e ci sono un sacco di esterni e si lavora tutto con gli effetti speciali. Allora che cavolo vuole dagli scenografi?”

Annuisco di nuovo, ma stavolta in modo un poco più plateale-

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“Credo gli faccia buon gioco mettere il nostro nome e sfruttarlo per attirare dei finanziatori…”

Ci guardiamo negli occhi, ma mi rendo conto che le venuzze me le ero solo immaginate.

“Ti ricordi vero che non ci pagato il lavoro dei due cortometraggi fatti lo scorso mese e che ora gli è venuta anche la fissa di fare lo scopritore di nuovi talenti realizzando dei numeri zero per la televisione?”

“E mi ricordo anche che ci ha saldato con ritardo la sola nota spese di quel numero zero della scorsa Estate per un programma televisivo fatto con dei nuovi comici presi da compagnie teatrali amatoriali”.

Così siamo arrivati a quattro lavori non pagati, ma in realtà ce ne sono molti di più, che non ci diciamo perché tanto nelle nostre menti appaiono contemporaneamente le fatiche e le giornate spese nel realizzare gli ambienti dei set, le scenografie studiate per dare il massimo effetto utilizzando materiali poveri o addirittura riciclandone qualcuno, magari modificandogli la funzione.

Digrigna i denti e serra la mascella, quindi deve anche aver stretto forte i pugni (ahi! dev‘essere soltanto un pugno sennò avrei sentito la sceneggiatura cadere a terra ed a terra non c’è visto che nel mentre ho abbassato lo sguardo assumendo un atteggiamento pensieroso) e poi ha fatto uscire un soffio di rabbia assieme ad alcune parole che in realtà intuisco: “Se me lo trovo davanti, lo strozzo!”

Sorrido e raddrizzo le spalle, portando il petto in fuori-

“Questo si può fare”.

Lo guardo e scopro come si deve fare lo sguardo interlocutorio che fa impazzire gli attori quando se lo trovano tra parentesi nelle loro battute.

“Ho detto che questo si può fare, perché il nostro caro produttore è qui”, gli dico sorridendo e cercando subito dopo di ricordare se ho ben marcato il tono ironico alla parola caro.

“Sarebbe a dire?”

“Guarda… Sai bene che si fa prima a mostrare che a spiegare“, quindi gli volto le spalle con un perfetto dietro front che mi fa apparire sin quasi aggraziato e mi dirigo verso la porta, ma quando sono ad occuparne lo specchio mi fermo, torco un poco il busto all’indietro, abbozzo un sorriso e tiro fuori il fiato-

“Il nostro caro produttore in questo preciso momento se ne sta buono buono nella mia auto, che è parcheggiata in strada qui davanti”.

Incredulo eppur docile mi segue con una curiosità che immagino crescente, sebbene non osi chiedermi nulla. E, mentre scendiamo lo scalone dominato dall’affresco che ricorda l’allegra brigata di paesani seicenteschi storicamente responsabili della defenestrazione di quel mascalzone del Marchese Giovani Moscheni patrizio di Alessandria e signore di Bergamasco, lui se ne sta in silenzio e vorrebbe chiedermi qualcosa-

Procedo con passo svelto nel porticato ingombro di tavoli su cui sono appoggiati i grandi pannelli con i bozzetti scenografici per una mostra sul cinema noir poliziottesco all’italiana, e lesto svolto l’angolo verso il portone coll’androne che ogni volta mi pare di fare un tuffo nel Medioevo per via delle lance e delle alabarde reduci da battaglie cinematografiche ben disposte nelle loro rastrelliere, queste reduci soltanto dall’usura del tempo.

Mi ritrovo per primo in strada e mi avvicino all’auto e volgo il capo ora al mio inseguitore ora all‘automezzo, trattenendo la voglia di spiattellare parola.

Che diamine, tocca a lui parlare. Invece non mi concede soddisfazione e si limita a guardare prima me e poi l’auto mantenendo, intatta quell’espressione interlocutoria di cui ho accennato prima (e mi domando se sia normale, per così tanto tempo). Infine però cede, “Non vedo nessuno…”

Sorrido, gli faccio cenno di seguirmi e muovo qualche passo portandomi verso la parte posteriore dell’auto, faccio scattare la serratura automatica e con una soddisfazione che tracima da ogni poro apro lo sportellone del bagagliaio rivelando che all’interno c’è un uomo in posizione fetale, ben legato a mani e piedi uniti e per giunta imbavagliato. Ah, e che si agita un poco sgranando gli occhi e mugolando qualcosa che potrebbero essere delle frasi, ma che neppure con tanta buona volontà si riesce a comprendere.

Il mio socio chiude con violenza lo sportellone, “Ma sei impazzito?!”, e si guarda tutt’attorno con espressione preoccupata, fors’anche un poco impaurita, che si trasforma in rabbiosa quando incontra i miei occhi-

“Ma che cosa credi di fare?”

Il suo tono duro mi scuote leggermente i nervi-

“Dì, che cosa credi di fare con questa cazzata? Eh?”

Faccio scattare la chiusura automatica e mi appoggio all’auto tenendo le braccia conserte ed assumendo un’aria pensierosa fors‘anche contrariata (almeno spero che la si legga in questo modo), mentre il mio socio cammina su è giù distanziandosi di più di cinque o sei passi ogni volta.

“Ma che cosa che ti è scattato nella tua mente bacata, in quel tuo cervello marcio, impiastricciato di colla e segatura!” (E poi un’altra dozzina di cose del genere che non sto a riportare che tanto avete già capito com’è l’andazzo).

Finalmente si ferma, prende fiato e si mette proprio di fronte a me: “Dovrei portarti sulla torre e buttarti giù come hanno fatto col Marchese Moscheni!”

“Veramente quello che hanno buttato giù era il figlio piccolo, perché lui era riuscito a scappare anche se poi s’è fatto un volo di sei metri slogandosi solo una caviglia per…”

“Mi dici che cosa ne facciamo, ora?”

Faccio spallucce…

“Semplice”.

“Semplice cosa?”

“Lo ammazziamo…”

Dal bagagliaio si sentono alcuni colpi sordi e penso a quando mi avevano garantito l’auto come completamente insonorizzata e antivibrazione.

“Che cosa?”

“Semplice, lo ammazziamo come si fa al cinema”.

Credo che ora lui mi creda pazzo.

“Sarebbe a dire?”

“L’importante è che lui creda che noi lo si voglia fare davvero per fargli prendere una bella strizza, così ripensa a tutta la sua vita che gli scorrerà davanti come se fosse un film ed allora poi finisce che si ravvede e paga tutti i debiti, così noi…”

Solleva lo sguardo ed i pugni al cielo. “Noi i film li facciamo e visto che li facciamo non siamo proprio obbligati vederceli! Porco Mondo!”

“Non ti arrabbiare”.

“Tiralo fuori!”

“Non ci penso nemmeno. Può passare gente. E se ci vedono…”

“Allora trova una soluzione e in fretta”.

Annuisco e sorrido soddisfatto, perché mi ero già preparato a questa eventualità, così mi avvicino al posto del guidatore, faccio scattare la serratura automatica, apro lo sportello e mi protendo dentro l’auto con il corpo, poggiando una mano sul sedile e raggiungendo coll’altra il cassettino portaoggetti. Lo apro ed estraggo una pistola Beretta 92/s, vero gioiello di precisione dalla meccanica, sempre affidabile. Esco dall’auto tenendo l’arma aderente al corpo e ritorno alla mia posizione scivolando nello spazio tra l‘auto ed il mio socio. Apro il portellone del bagagliaio e sventolo l’infallibile sparacolpi proprio sotto il naso del produttore, che riprende ad agitarsi, anzi ora lo fa con maggior foga. E terrore nei suoi occhi.

“Avrei voluto spararti da fuori senza neppure aprire il bagagliaio, ma poi ho pensato che così non avresti capito. Allora preferisco fartelo sapere prima che adesso ti porto a fare un bel giro per le colline del Monferrato e che appena trovo una bella strada che finisce tra i vigneti, ti faccio sentire il suono di questa meraviglia di design e meccanica di precisione”

Richiudo lo sportello senza badare troppo ai mugolii di evidente protesta, poiché incrementati per intensità e volume. Aha! Si sente qualcosa anche con lo sportellone chiuso, quindi la garanzia dell’insonorizzazione è tutta da rivedere.

Infilo la pistola nella cintura dei pantaloni e guardo con insopprimibile soddisfazione il mio socio: “Ecco fatto!”, e lui sgrana gli occhi. Stavolta intravedo davvero minuscole venuzze rosse ramificarsi per tutto il bulbo oculare ad una velocità impressionante-

Ecco fatto, pazzo incosciente! Hai appena minacciato di morte il tuo produttore sventolandogli una pistola sotto il naso e lui… E lui se ne sta lì legato e imbavagliato nel bagagliaio della tua auto”.

Infilo una mano in tasca e ne estraggo alcuni piccoli bossoli argentei, molto piccoli.

“Calma. Intanto la pistola è scarica e poi al massimo ci potrei mettere questi proiettili a salve, visto che si tratta di una Beretta modificata a calibro sette e sessantacinque con foro d’uscita laterale. Questa è una pistola di scena e l’hai pure già vista nel primo cortometraggio, dato che l’ha usata l’assassino del gelataio e dell’importatore di granaglie!”

Una sua manata intenzionale e di certo dispettosa fa volare i bossoli che vanno a sparpagliarsi sulla strada, così sono costretto a ricordarmi quanti erano mentre li cerco con lo sguardo prima di chinarmi a raccoglierli. Un’operazione che compio rimanendo piegato sulle ginocchia, saltellando; mentre il mio socio picchietta su tasti del telefonino.

“Ciao Lupa. Siamo di nuovo nei guai. Ci trovi a casa del Maestro e per fortuna lui non c’è, perché l’hanno chiamato per un film in Romania. Ti aspettiamo”.

Mi alzo, facendo abbozzi ginnici per tentare di sgranchirmi le gambe.

“Così hai di nuovo chiamato Lupa…”

Il suo sguardo mi fulmina e penso che dovrebbe farsi una visita oculistica approfondita con esame iridologico. “Perché, adesso hai forse in mente di tirar fuori qualche altra brillante idea? Guarda che per oggi abbiamo fatto il pieno!”

Quando fa così è insopportabile. Dico sul serio. Per tutto il tempo che ci lavoro insieme andiamo d’amore e d’accordo, ma quando gli capitano questi momenti in cui si arrabbia così, vi assicuro che non è affatto piacevole, anzi non è facile neppure respirare l’aria che gli sta attorno. In quel preciso istante avrei tanto voluto andarmene via, prender su la mia auto e farmi un bel giretto per distendere i nervi, girovagando per le strade che s’inerpicano sulle colline, verso Nizza Monferrato per piegare verso Canelli e poi da lì spingermi magari sino ad Alba, lasciando il Monferrato per la Langa dove le colline dai lati diseguali, a picco da una parte e in dolce declivio da quella opposta. Al tramonto poi, col sole che arrossa i loro contorni e fa sembrare le foglie delle viti come se fossero…

“Tirati su che è arrivata Lupa!”, mi scuote l’uomo brutale che da mezz’ora buona mi tiene sulla strada a far compagnia a quell’altro sgradevole personaggio chiuso nel bagagliaio della mia auto. È vero, l’auto della Lupa è apparsa in fondo alla strada e son contento. Con calma l’automezzo accosta, fermandosi non troppo vicino al mio. I vetri azzurrati ci permettono soltanto d’indovinare la sua fisionomia, dal busto in su, incorniciato in una cascata di capelli biondi. Sarà più che altro un alacre lavoro di immaginazione, ma due tette così grosse e tonde e sode ti fanno desiderare di non essere in nessun altro luogo se non quello che condividi con lei. Lupa scende a terra subito dopo aver spento il motore e quindi le luci, mostrando da sotto la portiera aperta prima una delle sue caviglie ben tornite e poi subito dopo l’altra.

Ottimo! Come speravo porta una gonna sopra al ginocchio e la curva sinuosa delle sue gambe mi ricorda quella delle strade collinari che avrei voluto percorrere. Oddio, tutte e due le vorrei percorrere: Ma non ho mai osato dirglielo. Perché?

“L’idiota ne ha fatta un’altrrra delle sue?”, mi rimprovera con una erre rutilante che mi sempre fatto ribollire il sangue.

“Infatti…”, si frappone anche fisicamente fra noi e la nostra pur sempre possibile storia il mio inopportuno socio, “Così ti ho chiamato…”

“Così mi hai chiamato perrchè sono quella che rrrisolve i prroblemi!”

Annuisco in modo plateale, attirando su di me quattro occhi fortemente adirati.

Il mio socio mi scosta brutalmente dal bagagliaio della mia auto a cui mi ero addossato e, dopo aver dato un’occhiata tutt’intorno, lo apre: “Il nostro problema di oggi è questo!” E indica il produttore riverso in una posa meno naturale rispetto alle altre aperture.

Noto che i pantaloni nella zona del pube hanno cambiato colore o meglio che si sono inscuriti in un contorno irregolare che definirei più propriamente chiazza.

“Questo si è pisciato addosso!”

“Che razza di maiale…”, dissento.

La Lupa fa una smorfia e si fa largo fra noi due, portando una delle sue mani dalle dita affusolate e dalle lunghe unghie laccate di rosso direttamente al collo del nostro produttore, andando a cercare qualcosa, magari una vena proprio come fanno nei film per verificare se uno è morto (la prova dello specchietto invece non si fa più?).

“Mi sa che è morrrto”.

Non abbiamo proprio nulla da dire a riguardo.

La Lupa ritrae la mano e fa un passo indietro.

Prrroblema di un tipo o prrroblema di un altrrro, orrrmai sono qui e vedo di darrrvi una soluzione”.

Uhm, non potete neppure lontanamente immaginare quanti brividi mi mettono tutte queste erre che si spandono dolcemente nell’aria.

“Buttiamolo nel Belbo!”, azzarda il mio socio, l’ingenuo.

“A parte il fatto che il corpo non arriva neanche a Oviglio che ci hanno scoperto”, intervengo, “E poi da queste parti non è neanche abbastanza profondo per farlo sparire, visto che il fondo è melmoso e troppo basso”.

Ferrmi, ferrmi che sto pensando”.

Adoro i suoi pensieri, tutti i suoi pensieri.

“Allora potremmo dargli fuoco”.

Scuoto il capo.

“Perché invece non facciamo come in quel vecchio film… Portiamo la macchina dalla sfasciacarrozze e la tiriamo su con un magnete e poi la gettiamo in una pressa e riduciamo l’auto ed il corpo in un unico ammasso cubico, facile da portar via… Eh, figo, no?”

Porrtar via dove?”

Adorabile disfattista.

“Proviamo a chiuderlo in una cassa”.

“Andiamo a seppellirlo nel bosco!”

“Debbo pensarrrci sopra…”

“Ideona! Potremmo murarlo nel castello, ricavando una doppia parete”, provo infine a suggerire, mentre la voce del mio socio si sovrappone alla mia con una proposta balzana. “Tagliamolo a pezzetti e mettiamolo dentro a delle valigie che possiamo lasciare alla stazione…”

Basta!”

Affascinante anche quando si arrabbia.

“Mi fate scoppiarrre la testa, tutti e due! Ed io…”, prende a muoversi in circolo agitando i pugni, “E io…”, con i capelli che ondeggiano come i campi di grano, “E io…”, e così muovendosi spande nell’aria il suo profumo inebriante che scuote ogni mio pensiero, “E io…”, finché non si ferma e con aria smarrita abbassa le braccia e sbuffa, “E io mi sono dimenticata la battuta”.

Stooop”, la voce imperiosa del regista ci fa voltare tutti e tre verso la macchina da presa posta sul cavalletto; il volto della Lupa si addolcisce, l’aiuto del fonico abbassa la lunga asta col microfono e la poggia a terra quasi fosse una lancia, scambiando un’occhiata d’intesa col fonico in avvicinamento; faccio segno ad un runner di portarmi una bottiglietta d’acqua e questo subito accorre, mentre il mio socio apre lo sportellone del bagagliaio dell’auto.

Il regista compie un gesto di stizza che la segretaria di edizione fa finta di non vedere, continuando a scribacchiare sulla sua tabella anche dopo che l’operatore alla macchina le ha dato il numero del timecode.

Il mio socio allunga una mano verso l’uomo che sta nel bagagliaio, lo scuote, “Vieni su che ci facciamo una pausa…”. Lo scuote ancora-

Il regista s’avvicina a grandi passi verso di noi.

“Se facciamo pausa lo decido io!”, rivelandoci che ha un udito finissimo.

Osservo preoccupato il mio socio che con movimenti febbrili libera dai suoi legacci l’uomo nel bagagliaio e poi appoggia tre dita alla base del collo, come effettivamente abbiamo sempre visto fare nei film quando vogliono accertarsi dell’esistenza in vita di un corpo che non risponde più agli stimoli.

Il regista si fa largo fra noi, si protende anche lui verso l’uomo che sta nel bagagliaio e compie lo stesso gesto delle tre dita alla base del collo. Impallidisce. Si raddrizza e guarda tutti noi con aria smarrita. Anche noi ci guardiamo l’un con l’altro, incapaci di profferire parola, di compiere un solo gesto, di abbozzare anche solamente un pensiero.

Soltanto la segretaria di produzione sembra avere un residuo di forza: si passa la lingua fra le labbra, inspira, socchiude la bocca, estrae dalla tasca un telefonino e nervosamente compone un numero.

“Chiamo la produzione, che ci mandino subito una di quelle persone che risolvono i problemi…”. Fa una pausa per respirare mentre attende che dall’altra parte qualcuno risponda ed organizza mentalmente una richiesta. Ma ha un tremore, uno scatto di nervi, una reazione convulsa ed il telefonino le scivola tra le mani, finendo a terra.

“Stooop”.

La voce imperiosa di un altro regista ci fa voltare tutti e nove verso nella sua direzione e osserviamo il braccio del dolly che scende riportando la macchina da presa e l’operatore verso terra. A tiro di voce della segretaria di edizione che segna il valore del timecode. E quest’altro regista si muove verso di noi-

“Aha, ma proprio adesso mi devi interrompere la scena?”, e dietro di lui un piccolo gruppo da cui si distaccano la truccatrice, l’attrezzista, l’armiere che presto s’infiltrano fra noi per prendere in consegna la mia Beretta, per verificare i danni al telefonino caduto a terra, per rimettere in sesto il bel volto della Lupa. “Sarà meglio che facciamo pausa, ma voglio tutto pronto di nuovo fra quindici minuti… Quindi non allontanatevi dal set, che questa la giriamo di nuovo tutta prima che faccia buio! E ricordatevi di tirar fuori quel disgraziato dal portabagagli”.

Già, sarà meglio portargli dell’acqua, almeno un sorso dalla mia bottiglietta. Perciò mi avvicino al bagagliaio dell’auto. ma mi blocco, cazzo, mi blocco per osservare meglio la sua posa, così innaturale; come il colorito, così pallido, e soprattutto quella inquietante fissità dello sguardo…

Lo sguardo!