La Nebbia si tagliava col coltello (racconto umoristico)

racconto umoristico di Claudio Braggio, primo premio alla quinta edizione del concorso nazionale “Parole in corsa” 2008 (bandito da ATM Alessandria) e pubblicato anche nell’antologia “Scrivere è viaggiare” (ASSTRA, 2009)

Anche quella volta la nebbia si poteva tagliare con un coltello.

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L’autista Giasone, come stava scritto sulla targhetta della patta destra della sua camicia-divisa, spiegò che si sarebbero aperti un varco grazie alla lunga sbarra verticale in alluminio anodizzato che stava sulla prora dell‘autobus, con due spuntoni che la tenevano a trenta centimetri.

“Ma funziona davvero?” domandai ricevendo un’occhiata cupa che alimentò un mormorio di disapprovazione alle mie spalle.

“Quel coso…”, mi consolò un ragazzino mai disattento alla corsa automobilistica che si disputava nella sua playstation, “tiene su l‘antenna del radar!” e gli altri fecero “ooohhh” rilassandosi.

Bramai l’indifferenza guardando dai finestrini e notai che invece del panorama c’era la mia immagine dai contorni incerti, giacché la nebbia aveva trasformato l’autobus in una sorta di salone con gli specchi deformanti.

Avevo voglia di pisciare, ma trattenni il desiderio perché non credessero volessi mantenere sempre viva l’attenzione su di me, quindi cercai mentalmente la bottiglietta vuota dell’aranciata.

“Quanto manca?” squittì una bionda quarantenne con le treccine e le curve abbondanti stipate in un vestitino da adolescente.

“Quanto strada abbiamo percorso?” aggiunse un uomo calvo afflitto dalla pinguedine che tra una parola e l’altra sbocconcellava uno sfilatino ai quattro formaggi.

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“Nello stabilire una relazione fra tempo e spazio, dobbiamo tener conto di quanto è avvenuto o di quel che sarà?” intervenne con voce baritonale una spilungona con grandi tette evidentemente rifatte ed un pomo d’Adamo ancora da revisionare.

Ne venne fuori una discussione tanto animata che i tre tizi intenti al gioco delle tre campanelle nell’ultima fila di sedili giudicarono più divertente infilarsi nella rissa filosofica: camicia ben aperta sul petto per mostrare collane e catene dorate, fors’anche in vendita, cercarono di convincerci che non esiste una condizione di partenza da cui si è giunti e in futuro non potrà accadere nulla che non esista già in quel momento.

Pensai fossero tre ispettori della società della linea di trasporto passeggeri e che volessero trovare una giustificazione per non rimborsarci il biglietto, visto che andavamo così piano da rendere poco credibile ogni manifestazione di “mal d’autobus”.

Non eravamo fermi, però la nebbia ci toglieva il cambiamento del paesaggio a conferma dell’esistenza di quella successione di istanti diversi che per convenzione chiamiamo tempo.

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Sullo spazio avevo da recriminare perché il sedile era stretto e non potevo allungare bene le gambe, così rimasi in piedi.

Gettai dal finestrino la bottiglietta non più vuota dell’aranciata nell’illusione di non essere stato visto, ma un ragazzino con la faccia ed il giubbotto da teppista anni Sessanta mi spiattellò un ragionamento ineccepibile: “Gettandola da quella parte avresti potuto colpire chi pensa sia meglio camminare al centro della carreggiata della vita nella certezza che gli altri si sposteranno; d’altra parte se tu l’avessi gettata dall’altro lato dell’autobus avresti potuto centrare chi invece conduce un’esistenza a bordo strada e confida di non essere investito“.

Promisi a me stesso che prima di prendere un altro autobus avrei letto prima il nome e quello era senza dubbio il primo e unico viaggio su “nave Argo“.

Una signora anziana con un vestito dai colori sgargianti ed una borsetta marrone scuro nient’affatto abbinata suggerì che sarei potuto scendere dall’autobus in corsa, riprendere la bottiglietta e risalire.

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Ci pensai su: a causa della nebbia la velocità di crociera era leggermente sotto quella del passo d’uomo.

Come faceva l’autista, pensai, a non imballare il motore?

Giasone fu abile per un’altra buona mezz’ora e poi restammo inchiodati nei pressi di un incrocio segnalato dall’alternarsi di verde, giallo e rosso soffusi tra il grigio.

“Allora, che cosa vogliamo fare?”, urlò imbestialito un uomo dalla faccia torva con i capelli biondi e le dimensioni di un orso dal collare, “Aspettiamo che faccia notte in questo deserto? Non so voi, ma io ho da fare e non posso aspettare per l’eternità i vostri porci comodi!” scatenando una rissa verbale sul rapporto di eternità e quiete, sulla scomparsa di un certo vello prezioso lasciato incautamente incustodito su un sedile e sull’impossibilità di arrivare a destinazione per l’ora di pranzo.

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A causa del trambusto stimai opportuno sgattaiolare fuori dall’automezzo e porre termine al mio viaggio: attesi a bordo strada che l’autista smettesse di far gracchiare il motorino d’avviamento e finalmente si decidesse a chiudere la porta.

L’autobus ripartì senza prendere molta velocità ed io con un moto d’istinto sventolai un fazzolettino bianco in segno di gioioso saluto, ma dubito che gli occupanti di “nave Argo” l’abbiano notato: quel giorno non si vedeva nulla, perché la nebbia la potevi davvero tagliare con un coltello.

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